«Leonardo Sciascia raccontava che, alla vigilia dell’avvento del fascismo, chiesero a un contadino cieco come vedesse il futuro. E il contadino rispose: cu tutto che sugnu orbo, la viu nivora. Con tutto che sono cieco, la vedo nera. Ecco, la stessa cosa potrei dire io oggi». In un afoso pomeriggio di luglio, Andrea Camilleri soppesa le parole, come se gli facesse fatica farle andare. Ormai percepisce solo ombre e incede a passo lento, ma la sua energia vitale è contagiosa. «Sa cosa mi dispiace? Io non soffro per niente dell’umor nero del tramonto, come lo chiamava Alfieri. Non ho rimpianti per il passato. Però questo è davvero un brutto passaggio nella storia italiana che temo non abbia paragoni con altri periodi». Anche nel suo ultimo Montalbano, appena uscito in libreria, s’addensano minacciose le nubi dell’attualità (Il metodo Catalanotti, Sellerio). Un romanzo singolare per l’ambientazione teatrale, per l’eccentricità della vittima che coniuga arte e sadismo e per lo sperdimento amoroso del commissario, disposto a tutto per la bella Antonia, anche a quello che non aveva mai fatto per la fidanzata Livia. E singolare anche per il presagio di tempesta politica. La possibilità che “il partito del Vaffaday” prenda il timone dell’Italia viene accolta dal commissario come “un incubo”. E nella nota finale, appuntata dopo la stesura del romanzo, lo scrittore registra che «quell’incubo è diventato realtà».
Viviamo in un incubo, Camilleri?
«Sì, sottoscrivo tutte le preoccupazioni di Montalbano.
Neanche io avrei mai voluto vedere il movimento del Vaffaday al governo del paese. Ed è facile immaginare cosa io pensi dell’attuale politica verso i migranti, avendone raccontato tutta la disperazione in libri precedenti. Sono persone che scappano dalle guerre o che cercano lavoro altrove. E non capisco la suddivisione che viene fatta in Europa tra una condizione e l’altra: io non vedo alcuna differenza. Credo che continuare a giocare sulla paura dell’altro sia un gioco pericolosissimo. Chi semina vento finisce con raccogliere tempesta. E oggi si sta seminando troppo vento».
Lei ha una memoria storica lunga quasi un secolo. Ha vissuto il fascismo, la rinascita nel dopoguerra, la trasformazione da paese contadino a paese industriale. Che cos’è l’Italia di oggi?
«Un paese che torna indietro, come i gamberi. È come se avesse cominciato a procedere in senso inverso, smarrendo le importanti conquiste sociali che aveva realizzato in passato. Se devo essere sincero, io non riconosco più gli italiani. Non li riconosco quando plaudono ai porti chiusi. E non li riconosco nel loro acconsentire a minacce, pressioni, modi di fare e pensare che non ci appartengono.
Qualche volta mi domando se Salvini sia un essere umano o un marziano. Ma ci si rende conto della gravità di un ministro dell’Interno che minaccia uno scrittore sotto scorta come Saviano di levargli la tutela dello Stato? Parole mafiose indegne della carica che ricopre.
Eppure tutto scivola nel dimenticatoio in un attimo. Ma cosa stiamo diventando? Io vorrei che tutti ci mettessimo una mano sulla coscienza».
Ma avverte un’assonanza con qualcosa che ha già vissuto in passato? O è una fase completamente nuova?
«Guardi, non voglio fare paragoni ma intorno alle posizioni estremiste di Salvini avverto lo stesso consenso che a dodici anni, nel 1937, sentivo intorno a Mussolini. Ed è un brutto consenso perché fa venire alla luce il lato peggiore degli italiani, quello che abbiamo sempre nascosto».
Quale?
«Prima di tutto il razzismo. Noi ci siamo riparati dietro l’immagine stereotipata di “italiani brava gente”, ma non è sempre stato così, specie nell’Africa Orientale. Su questo preferisco sorvolare. Però ricordo ancora le scritte che mi accoglievano a Torino negli anni Sessanta quando andavo a lavorare nella sede Rai: “Non si affittano case ai meridionali”».
Come spiega questo fondo razzista che permane nelle viscere della società italiana?
Non abbiamo fatto i conti fino in fondo con il fascismo?
L’abbiamo banalizzato?
«Sì, è così. Subito dopo la Liberazione il grande giornalista Herbert Matthews scrisse sul “Mercurio” un articolo che ricordo ancora a memoria, “Non l’avete ucciso”. Cari italiani – diceva – voi forse pensate che avendo appeso Mussolini per i piedi avete distrutto il fascismo. Ma il fascismo non si distrugge così: è un bacillo mutante che può prendere forme diverse. E ci vorranno decine e decine di anni prima che riusciate a liberarvi completamente dall’infezione.
All’epoca pensai: ma questo è pazzo! Oggi devo riconoscere che aveva visto giusto. Il virus è mutante. E noi non abbiamo voluto liberarcene fino in fondo».
Lei è uno scrittore, attento quindi alle parole. E la lingua rivela molto di un ceto politico. Il nostro ministro dell’Interno ha usato il termine “pacchia” riferito ai migranti che sbarcano in Italia.
«Salvini è un uomo di terra, non conosce il mare. Se lo conoscesse, avrebbe più rispetto di coloro che sono costretti a imbarcarsi su gommoni destinati a naufragio sicuro: persone che, alla vita che vivono, preferiscono il rischio di morte. E lui che parla tanto dei suoi bambini non prova nulla davanti ai cadaveri che galleggiano in mare?
Non sono bambini come gli altri? O cosa sono? Sono futuri delinquenti, ha detto una volta. Dio o chi ne fa le veci gli perdoni queste parole».
La parola padre ritorna spesso nel discorso pubblico.
Anche il premier Conte s’è definito pater familias dello Stato. Come se gli italiani fossero un popolo immaturo, in cerca di un tutore piuttosto che di una classe politica all’altezza del compito.
«Ma certo! Il premier s’è presentato come “l’avvocato difensore degli italiani”. E sotto la sua dichiarazione è comparsa la scritta “… e ne chiederò subito la semiinfermità mentale”».
Ma come ci siamo ritrovati in questa situazione? L’Italia di Salvini e del Vaffaday non è calata dall’alto all’improvviso.
«La domanda dobbiamo farcela e assumerci anche le nostre responsabilità. Una delle mie più grosse pene è proprio questa: a novantatré anni, a un passo dalla morte, mi trovo a lasciare a nipoti e pronipoti un’Italia che non mi aspettavo di lasciare in eredità. I miei uomini politici si chiamavano De Gasperi, Togliatti, Nenni, Sforza. Avevano un preciso concetto dello Stato e di quello che si poteva fare del paese.
Abbiamo ricostruito l’Italia, ora la stiamo risfasciando. Per questa ragione sento di aver fallito come cittadino italiano. E mi pesa molto».
Posso chiederle perché il suo ultimo Montalbano perde la testa per amore come mai era accaduto prima?
«Sono le cartucce finali.
Montalbano s’innamora follemente proprio perché sa che questa è l’ultima volta che può provare un sentimento simile. Credo che l’ultimo amore di un uomo abbia la stessa intensità del primo. O forse di più».
E lei che da settant’anni vive con la sua amata moglie Rosetta come lo giudica?
Finalmente rivelati i progetti del ministro Lorenzo Ornaghi. Rispondendo con solo nove mesi di ritardo a una lettera firmata da oltre cento direttori di musei, archivi, biblioteche che lamentavano lo stato deplorevole dei beni culturali e il nessun riconoscimento dei loro meriti e del loro lavoro, il ministro ha parlato chiaro (Corriere della sera, 8 dicembre): bando alle ciance, la vera priorità del nostro tempo è «evitare a ogni costo il diffondersi della peste dell’invidia e delle gelosie sociali», che porterebbero a «un incattivimento della società italiana più pericoloso dello spread, più nefasto di ogni immaginabile stallo dei partiti o del sistema rappresentativo- elettivo».