by Andrea Capocci | 30 Giugno 2018 9:41
L’appuntamento con Stefano (nome di fantasia) è di fronte a un McDonald in una zona centrale di Roma. Oltre a lui, il rider che ha accettato di farmi vedere come funziona un normale turno di lavoro, diversi altri suoi colleghi stazionano di fronte al fast food con lo scatolone colorato sulla schiena. «In tanti veniamo qui all’inizio del turno. Questo è un buon punto per noi», mi spiega Stefano seduto sul suo scooter.
«Prima di tutto, qui intorno ci sono tanti ristoranti e gli ordini vengono assegnati ai rider anche in base alla loro posizione. Adesso che il “Mac” si è messo d’accordo con diverse aziende di consegne a domicilio, molti ordini partono proprio da qui. E poi, d’inverno, nessuno ti rompe le scatole se aspetti le chiamate dentro il McDonald, invece che al freddo o sotto la pioggia». È un fine settimana e sono le sette, ora di punta per chi inizia a pensare alla cena e non ha voglia di perdere tempo.
IN EFFETTI, UN SACCO DI GENTE usa le app per ordinare Big Mac e patatine. Chiamare un fattorino per mangiare fast food è un tipico paradosso del capitalismo maturo, visto che McDonald, dove il cliente serve in tavola e sparecchia, si basa sulla eliminazione degli intermediari. Però passano pochi secondi e lo smartphone di Stefano vibra: qualcuno vuole un hamburger. Dove portarlo, non si sa ancora: «La app ti dice l’indirizzo solo quando hai ritirato il pacco». Si parte senza andare molto lontano. «La città è divisa in zone, e tra il ristorante e il destinatario non possono esserci più di 4 chilometri».
QUESTO PRIMO ORDINE va veloce. Si arriva a destinazione, si segnala alla app che si è completata la consegna e prima ancora di risalire sullo scooter arriva un altro ordine. «I problemi nascono quando il cliente ha comunicato un indirizzo sbagliato, o il navigatore ti fa sbagliare strada. Prima potevamo chiamare un call center a Roma che contattava il cliente o ci dava le dritte sui percorsi. Ora invece comunichiamo via chat con Milano, con tempi rallentati e informazioni poco affidabili perché non conoscono la città».
Stasera va tutto liscio, al massimo qualche contromano per tagliare sul percorso. Andiamo avanti per tutta la sera, un ordine dopo l’altro praticamente senza pause. La scelta è varia: cucina messicana, pasticceria, pizza, e diversi altri hamburger.
«NON È SEMPRE COSÌ. Questo è un orario buono in una zona buona», mi spiega Stefano. E allora perché non lavorano tutti a quest’ora? «La scelta dell’orario non è libera come si crede». Mi spiega il meccanismo. Ogni lunedì si prenotano i turni della settimana, comunicando zona e fascia oraria. Ma il numero di turni disponibili è prefissato, perciò, i turni più ambiti e in cui si fanno più consegne, quelli del weekend, si riempiono subito. Quindi non è il rider a scegliere quando lavorare: è l’azienda a comunicare i suoi bisogni, e sta ai rider adattarvisi, sempre rispettando le gerarchie informali stabilite dall’azienda. Per riuscire a prenotare un turno, è decisivo avere un “rating” alto. È un punteggio che misura l’affidabilità del rider. Chi ha più punti, può visionare i turni prima degli altri e scegliere quelli preferiti. «Il rating misura la tua affidabilità. Se prenoti un turno e lo disdici all’ultimo momento, magari perché hai l’influenza, il tuo rating si abbassa e scegliere gli orari diventa più difficile». Stefano ha il punteggio massimo. «Però se cambio società non posso portarmi dietro il rating e riparto da zero». A fine turno la app si scollega automaticamente. Togliamo i caschi e abbiamo il tempo di fare due chiacchiere, e due conti.
OGNI CONSEGNA È PAGATA cinque euro lordi l’ora, da cui bisogna sottrarre circa il 20% di tasse, la benzina e le spese per lo scooter. Il resoconto della serata parla di sette consegne effettuate per un totale di trentacinque euro, circa venticinque netti. Stefano è soddisfatto. Fare più è difficile e per chi va in bici è impossibile. Gli ordini poi dipendono da tanti fattori che il rider non controlla, come posizione e velocità – l’algoritmo privilegia lo scooter rispetto alla bici.
L’azienda garantisce un fisso orario, ma non è granché. Alla fine del mese, Stefano con quattro o cinque turni a settimana tira su seicento euro lordi al mese. Meglio che portare le pizze al nero, dove si viaggia sui cinque euro l’ora. Ma se facesse lo stesso lavoro con un contratto da lavoratore dipendente avrebbe diritto a nove euro l’ora più tre di contributi secondo il contratto collettivo della logistica. Lavorando le stesse ore ne guadagnerebbe sette-ottocento, contributi inclusi. E avrebbe diritto a ferie, malattia, tredicesima e sciopero.
INVECE STEFANO, COME TUTTI i rider, è una partita Iva, un «imprenditore di se stesso». Dunque, niente tutele e un contratto che può essere rescisso in qualunque momento e senza “giusta causa”. Per ora gli va bene così. «Se fossi un lavoratore dipendente, magari perderei la libertà di scegliere quando lavorare. A quel punto dovrei smettere di consegnare pasti a domicilio perché non sarebbe conciliabile con l’altro lavoro in ufficio che faccio la mattina». Vista così, non fa una grinza. Secondo i sindacati e gli avvocati, però, diritti sindacali e flessibilità non sono in contraddizione.
Negli ultimi anni, le tipologie contrattuali si sono moltiplicate, e non certo per volontà dei lavoratori. Sono proprio le aziende a chiedere orari di lavoro sempre più intermittenti e forme lavorative sempre più atipiche, per affrontare i picchi di produzione senza dover ricorrere a straordinari e risarcimenti. Secondo diversi giuristi, ad esempio, il lavoro del rider potrebbe rientrare nella categoria dei “lavori a chiamata” introdotti dalla legge Biagi nel 2003, anche senza rinunciare a flessibilità, app e rating. Ma alle aziende non basta ancora, e preferiscono ripiegare su partite Iva e collaborazioni parasubordinate che costano molto meno.
«NON NEGO CHE A MOLTI rider farebbe comodo un contratto come si deve», riconosce Stefano. «Quando sui media si parla di noi, sembra che siamo tutti giovani studenti un po’ scapestrati. In realtà, da quando faccio il rider ho conosciuto molti padri di famiglia, e immigrati che mettono in fila due o tre turni al giorno con diverse aziende per campare». E non possono sgarrare, perché poi prenotare i turni diventa più difficile.
LA APP SULLO SMARTPHONE crea un’illusione di autonomia e libertà ma l’impressione complessiva ricavata sul campo è diversa: il lavoro del rider è molto più rigido di quanto si racconti. L’identikit del rider come uno studente fuori sede che, tra un esame e l’altro, inforca la bici e si guadagna qualche euro nei pomeriggi liberi è lontana dalla realtà. Qualcuno ricorderà i rider bolognesi che pedalavano sotto la neve con lo scatolone sulla schiena: lavorare in quelle condizioni per cinque euro a consegna sembrava una follia. Invece, è esattamente il comportamento richiesto dall’algoritmo per non perdere punti. Se non si è disposti a rispettare orari fissi a qualunque costo, dunque, meglio lasciar perdere. Con la gig economy non si scherza.
FONTE: Andrea Capocci, IL MANIFESTO[1]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2018/06/vita-da-rider-a-cinque-euro-lordi-lora/
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