by Claudia Fanti | 19 Giugno 2018 12:07
Ora il futuro del paese sarà segnato da una ulteriore spinta verso la realizzazione degli obiettivi Usa
La Colombia non volta pagina. E sceglie il passato, quello peggiore, quello uribista. Perché tutti sanno che il governo a cui darà vita il presidente eletto domenica scorsa, l’appena 42enne Iván Duque del Centro Democrático (vincitore con il 54% dei voti contro il 41,7% di Gustavo Petro), sarà totalmente controllato da Álvaro Uribe, l’ex presidente responsabile, nei suoi otto anni alla guida del Paese (2002-2010), delle più gravi violazioni dei diritti umani, a partire dai suoi ben noti legami con il paramilitarismo e il narcotraffico. «Uribe es Uribe y Duque también», aveva sintetizzato in maniera lapidaria il noto vignettista Vladdo.
Resta, tuttavia, lo straordinario risultato ottenuto da Gustavo Petro, il primo candidato progressista a essersi giocato la presidenza – a capo della coalizione Colombia Humana – di uno dei paesi più conservatori del continente, malgrado gli ininterrotti attacchi di cui è stato vittima durante l’intera campagna elettorale.
«Per la prima volta nella nostra storia – ha commentato non a caso la Farc, il partito nato dall’ex guerriglia – si sono sfidate due opzioni diametralmente opposte», a dimostrazione di come stia nascendo «un’alternativa politica diversa da quella che ha tradizionalmente governato il paese. L’opzione dei milioni di esclusi e abbandonati».
L’opzione, anche, per un modello post-estrattivista e rispettoso dell’ambiente: «Se la Colombia avesse scelto la via del cambiamento – ha dichiarato Petro – avremmo posto le basi per quella grande alleanza proposta da papa Francesco contro il riscaldamento climatico. Fra quattro anni ci riproveremo».
E ai suoi sostenitori delusi Petro non ha mancato di rivolgere parole di incoraggiamento e di speranza: «Otto milioni di colombiane e colombiani orgogliosamente liberi. Nessuna sconfitta. Per ora non saremo al governo». Laddove non sfugge l’utilizzo di quel “por ahora” reso celebre da Hugo Chávez, in realtà piuttosto sorprendente, considerando i suoi sforzi per sottrarsi alle accuse di castrochavismo.
Por ahora, tuttavia, ci sarà Duque, la “marionetta” di Uribe. Che, se in Colombia significa il peggio del peggio della storia del paese – in termini non solo di propensioni guerrafondaie, ma anche di corruzione e di sostegno al latifondo e all’estrattivismo -, per l’America latina comporterà una spinta ulteriore al processo di subordinazione agli interessi degli Stati uniti.
Dopo i colpi di Stato in Honduras, Paraguay e Brasile e la vittoria di Macri in Argentina e di Piñera in Cile, le forze di destra hanno ormai ripreso il pieno controllo della “Patria Grande”, mettendo una pietra tombale – por ahora – sul processo di integrazione latinoamericana, sulla proclamazione della regione come “zona di pace” (grazie all’ingresso della Colombia nella Nato deciso dal presidente Santos) e su qualunque sperimentazione antisistemica attuata, sia pure in maniera contraddittoria, durante circa 15 anni di ciclo progressista.
FONTE: Claudia Fanti, IL MANIFESTO[1]
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