E 900 mila lavoratori under 30 finanziano il piano Brambilla
L’obiettivo è cancellare la Fornero. Il paradosso è peggiorarla. La riforma gialloverde per anticipare la pensione degli italiani, inserita da Lega e Cinque Stelle nel contratto di governo, rischia un esito rovesciato. Precari, donne, disoccupati, giovani e chi è impiegato nei mestieri più pesanti non solo non ne beneficeranno. Ma faranno un passo indietro.
E non finisce qui. L’elenco degli sconfitti di “quota 100” – almeno 64 anni di età e 36 di contributi – e “ quota 41 e mezzo” – di soli contributi, a prescindere dall’età – si allarga anche ai “quotisti”. Chi rientra nei nuovi parametri si prepari a una sorpresa niente male: il ricalcolo contributivo di quanto versato tra il 1996 e il 2011. « Dovevamo farlo già nel 1996, quando entrò in vigore la riforma Dini » , spiega Alberto Brambilla, esperto previdenziale e consigliere del vicepremier leghista Salvini. «E invece si scelse un’altra strada » . Ovvero mantenere nel retributivo ( pensione proporzionale agli ultimi stipendi) quanti già avevano più di 18 anni di versamenti. E affidare tutti gli altri al nuovo calcolo in base ai contributi, poi diventato universale nel 2012.
Ora, ricalcolare 16 anni col contributivo potrebbe tradursi in un taglio medio sull’importo della pensione del 9-10% che forse molti pensionandi non hanno messo in conto, quando sentono parlare di “quota 100”. Senza pensare che tra 1996 e 2012 sono andati in pensione già oltre 3 milioni e mezzo di italiani. E con un assegno più generoso di quanto spetterà a loro, perché interamente retributivo. Motivo di contenzioso infinito. Non solo. Lo stesso effetto di “quota 100” ricalcolata si ottiene usando l’Ape volontario in vigore, l’autoprestito per anticipare la pensione. Con la differenza che il taglio implicito in “ quota 100” è permanente e finisce pure nella pensione di reversibilità. Mentre quello analogo dell’Ape (di fatto un prestito bancario assicurato) dura 20 anni – il periodo di rimborso – e non impatta sugli eredi.
Come si vede nella tabella che abbiamo chiesto di elaborare a Tabula, società di consulenza sul risparmio previdenziale fondata da Stefano Patriarca, chi ha avuto carriere discontinue o brevi ( come statisticamente accade nel Sud e per le donne) oppure interruzioni superiori ai 2 anni per cassa integrazione o malattia (per “quota 100” valgono al massimo 2 anni di contributi figurativi) rischia con la “ riforma Brambilla” di posticipare l’uscita dal lavoro fino a 3 anni. Quando va bene, non ha alcun vantaggio: esce alla stessa età di oggi. Analogo disagio toccherebbe a quanti oggi usufruiscono dell’Ape sociale e possono andare in pensione a 63 anni, fino ad un massimo di 1.500 euro, anche solo con 28, 30 o 36 anni di contributi, se appartenenti alle 15 categorie protette: dalle infermiere alle maestre di asilo, dagli operai edili ai siderurgici, dai facchini ai camionisti. L’Ape sociale verrebbe abolita, tra l’altro senza risparmiare granché, perché la misura termina a dicembre 2018, andrebbe rifinanziata e al massimo potrà garantire 200- 300 milioni di soldi non spesi. Privi di Ape sociale ( a carico dello Stato), le professioni più gravose perderebbero un importante ombrello di protezione, senza altra rete. Se non i 41 anni e mezzo di contribuzione: ma chi li ha, visto il nero e l’intermittenza che caratterizzano quei mestieri?
Infine l’impatto sui giovani e sui conti pubblici. I primi sono i perdenti a tutto tondo: pagano di tasca loro le riforme e controriforme di oggi e incasseranno domani, a 70 anni, pensioni da fame grazie a carriere piene di buchi e corse in bicicletta a portare pizze. Patriarca, ex consigliere di Palazzo Chigi nel governo Gentiloni, calcola che servono i versamenti di 5 giovani di oggi per pagare un solo anno di anticipo del nuovo “ quotista” gialloverde. Se davvero l’intera operazione costasse 5 miliardi, come indica invece Brambilla – ma Patriarca la valuta in 9 miliardi – risucchierebbe il gettito contributivo di 900 mila under 30. In cambio di cosa? Il contratto di governo non lo dice. Perché ha dimenticato il capitolo “giovani”.
Il responsabile del lavoro scopre la carte di Renzi: «Andare a votare prima del referendum sul Jobs Act, che per legge verrebbe rinviato». Un governo che fa la legge elettorale e poi lascia il campo è lo scenario più probabile