by Gianni Beretta, Giovanna Neve | 3 Giugno 2018 19:18
Reportage. La repressione scatenata contro le proteste che infiammano il paese dallo scorso 18 aprile (un centinaio le vittime). Il presidente Ortega non si arrende, ma potrebbe essere alle ultime cartucce
MANAGUA. Gli ultimi giorni. Il Presidente trema. Daniel Ortega ha paura. E la paura è pericolosa.
Il 30 maggio in Nicaragua si celebra la Giornata delle Madri, una ricorrenza tanto importante che prevede persino il giorno libero dal lavoro. L’Alleanza civica che guida la rivolta (formata da società civile, impresa privata e studenti) ha organizzato una grande marcia per celebrare le madri d’aprile, quelle che hanno perso i figli nelle proteste, quelle che hanno dovuto riconoscere i corpi torturati dei ragazzi, quelle che li stanno ancora cercando. Intanto Rosario Murillo (moglie di Ortega e vicepresidente), autoproclamandosi madre di tutti i nicaraguensi, invita a una celebrazione in piazza.
Nei giorni precedenti vari fuoristrada bianchi, senza targa e con gente incappucciata a bordo, girano per la città e sparano su piccoli gruppi di contestatori. Non aspettano la notte per colpire i luoghi sensibili. Non si sa chi siano ma vanno a rifugiarsi al Carmen, il quartiere dove risiede la coppia presidenziale. Proseguono attacchi violenti e repressioni nelle università e il giorno dei due cortei i numeri parlano da soli: sono in 38.000 a celebrare il governo, mentre 320.000 persone partecipano alla mobilitazione più grande mai vista in Centroamerica.
Un paio d’ore dopo l’inizio della Marcia delle Madri d’aprile, la polizia e le forze paramilitari attaccano la folla. Tra gli scontri a Managua e in altre città il bilancio è di 16 morti e più di 200 feriti. È una nuova strage. I rappresentanti del Movimento contadino arrivati a Managua nella mattinata si rifugiano nella Cattedrale; oltre 5.000 persone vengono protette dentro i cancelli dell’ Università Centroamericana (Uca). Nella notte scontri in varie zone del paese, altri feriti, saccheggi. Secondo il governo è la destra vandalica responsabile di tutto ma la macchina della menzogna non funziona più.
Il Tavolo del dialogo che avrebbe dovuto portare ad un accordo tra governo e Alleanza civica è fallito: nessuna mediazione possibile tra le parti in causa dopo quattro giorni di discussioni. Gli studenti lo avevano detto che era assurdo dialogare con un assassino e avevano ragione: era stata stabilita un’agenda i cui punti principali erano la giustizia per i fatti d’aprile, la democratizzazione del Paese, riforma del sistema elettorale ed elezioni anticipate.
Il 16 maggio alla prima sessione dei lavori Ortega e Murillo sono presenti: incassano duri colpi e non sanno rispondere. Nei giorni successivi però la discussione si arena attorno all’unico aspetto che preoccupa il governo, ossia le barricate alzate dal Movimento contadino in punti strategici del paese (difficile per le imprese legate ad Ortega smerciare illegalmente legname prezioso sottratto dalle riserve tropicali con le strade bloccate). Nessun esponente del governo parla dei morti, di giustizia, men che meno della possibilità di dimissioni del Presidente. Continuano a mistificare la realtà con giochi di parole semplici e grande povertà retorica.
Dopo l’immensa marcia del 30 maggio e il violento massacro, la Commissione di mediazione guidata dalla Conferenza Episcopale dichiara che non ci sarà più dialogo fino a quando il governo non cesserà il fuoco. L’Alleanza civica per la democrazia e giustizia guidata dagli studenti fa le stesse richieste e invita la popolazione a continuare la resistenza pacifica.
Ci prova ancora il governo a ribaltare le carte dopo 45 giorni di protesta ma oramai non gli crede più nessuno. O forse sì: i corrotti, gli assoldati, e qualche dinosauro della sinistra internazionale che riesce ancora a vedere socialismo in un governo che non può definirsi altro che dittatura istituzionalizzata.
Dal 18 aprile, inizio dell’ondata di proteste, qualcosa è cambiato: il viso insanguinato del primo studente ferito nella facoltà di Agraria ha svegliato cicatrici dolenti e ferite non sanate. Gli studenti non si toccano e Ortega ha fatto il passo sbagliato. Il Fronte sandinista guidato monoliticamente dal Comandante e da Rosario Murillo ha creato una dittatura silenziosa. Un governo con impostazione autoritaria non poteva dare risposte differenti alla crisi di aprile: e all’aumento delle proteste corrisponde un proporzionale aumento della violenza, espressione di un potere patologico che era già installato nella società. È il meccanismo di prevenzione e difesa tipico dei regimi che ha fatto emergere il carattere oppressivo della relazione tra dittatore e dittatoriati (secondo la definizione di Mejri e Hagi rispetto alla Rivoluzione dei Gelsomini).
Il Nicaragua, dalla colonizzazione in poi, ha assunto modelli di governo autoritari e autorevoli basati sulla costruzione di grandi paradigmi e relazioni affettive di dipendenza: religione e famiglia. Alla figura di Dio e del padre/madre non ci si può opporre e Ortega l’aveva capito benissimo: prima il patto con la Chiesa sancito sul corpo delle donne (in Nicaragua l’aborto terapeutico è diventato illegale per una sua legge) e poi l’autocelebrazione, sua e della moglie, come genitori di una nazione intera.
Ma non si aspettavano figlie e figli ribelli, né una Chiesa che improvvisamente si ricorda la propria missione. Questa volta il governo e i suoi consiglieri hanno fatto gravi errori di valutazione: non avevano captato la stanchezza della gente, non avevano valutato le avanguardie provenienti dal Movimento contadino e dalle femministe, non avevano pensato all’immediatezza della diffusione in rete della barbarie perpetrata a partire da quel 19 aprile. Non avevano pensato che anche i soci più fedeli possono cambiare idea.
L’immagine internazionale del Nicaragua era quella di un paese stabile, sicuro, in forte crescita, ma di fatto la società stava vivendo una dittatura blanda, obbligata ad accettare passivamente di vivere in uno ristretto spazio residuale senza diritto d’opinione. La società nicaraguense si è ribellata a una tradizione di potere storicizzata e non solo contingente. Ortega, già dal suo primo mandato, è stato abile a usare le parole, mantenendo intatta la forma e cambiandone il contenuto: gli slogan che proclamano amore e riconciliazione, la patria cristiana, socialista e solidale hanno fatto leva sulla necessità di pace, l’esigenza di stabilità economica e la forza dei simboli. Ma stanno cadendo tutti, uno dopo l’altro.
Studenti e manifestanti iniziano ad usare contro il governo le loro stesse parole, le loro canzoni: non si posizionano politicamente ma rivendicano i simboli del sandinismo, le idee di Carlos Fonseca (fondatore del Fronte Sandinista), gli ideali rivoluzionari e parlano di tradimento da parte di Ortega. In Nicaragua non c’è una mancanza di leader capaci di sostituire il Comandante: è il paradigma della leadership ad essere stato distrutto da questo governo e gli universitari l’hanno capito.
Non si può ancora dire se sarà una nuova colour revolution, se le teorie di resistenza pacifica di Gene Sharp guideranno anche questa ribellione, ma resta chiaro per tutti che i giovani della rivolta etica sono i protagonisti e le guide morali del processo nicaraguense.
Al momento è difficile valutare le prospettive: la gente non vuole una nuova guerra ma Ortega e il suo seguito devono andare via. La coppia presidenziale è colpevole della più grande repressione che abbia vissuto il paese in tempi di pace, compresa quella del tiranno Somoza che il Fronte aveva abbattuto: oltre 100 i morti fino a oggi, intorno al migliaio i feriti e i detenuti, ancora molti i desaparecidos. Non sono serviti gli interventi della Commissione Interamericana dei diritti umani, né la dura denuncia di Amnesty, né le richieste dell’Onu a fermare la violenza.
Sono in molti a sostenere che Ortega stia sparando le sue ultime cartucce prima della resa. Restano le incertezze sulla capacità della popolazione di resistere a una situazione che ogni giorno si fa più complessa e tesa: l’ipotesi di uno sciopero nazionale divide il movimento e il fantasma dei logoranti anni ’80, la guerra, la fame, i lutti, è ancora presente.
Gli universitari hanno fatto scoppiare la rivolta, ora devono dimostrare di saperla gestire.
FONTE: Gianni Beretta, Giovanna Neve, IL MANIFESTO[1]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2018/06/nicaragua-i-giorni-pericolosi-della-paura/
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