Mario Draghi annuncia la fine del Quantitative easing

Mario Draghi annuncia la fine del Quantitative easing

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La pacchia è finita. La fine del “Quantitative easing”. Il presidente della Bce: “La moneta unica è irreversibile e sullo spread non c’è stato alcun complotto”. La reazione del vicepremier Luigi Di Maio: «Sul destino economico dell’Italia non deve decidere la Bce ma l’Europarlamento». Il governo si è avviato sul “sentiero stretto” tra i paletti di Francoforte e quelli di Bruxelles

Nel giorno storico dell’annuncio della fine graduale della politica monetaria ultra-espansiva («Quantitative easing») a fine dicembre, ieri da Riga il presidente della banca Centrale Europea Mario Draghi ha inviato un messaggio pragmatico alla madrepatria dove i sussurati piani di uscita dall’Euro sono tornati all’ordine lasciando spazio alle battaglie contro i migranti.

IL CUSTODE DELLA STABILITÀ dei prezzi, dell’ordine economico anti-deflattivo e dell’alluvione monetaria che ha consolidato i bilanci delle banche e contenuto la crisi del debito ha ribadito la verità a cui anche il governo gialloverde si è adeguato, altrimenti non sarebbe nemmeno partito: il pilota automatico della Bce è inserito, l’Euro è «irreversibile» e, quando ci sono governi come quello italiano che partono per battere i pugni sul tavolo e finiscono per prendere ordini della governance, è importante «non drammatizzare» le scelte dei cittadini.

ANCHE PERCHÉ, ha sottolineato ironicamente Draghi, sullo spread «non c’è stato alcun complotto» e il voto al governo Salvimaio non ha prodotto «alcun contagio», né riacceso il rischio di «ridenominazione» della moneta: l’«Italexit», l’uscita dell’Italia dall’Euro. Si è trattato di un «episodio locale». E questo vale per tutti gli altri 19 paesi su cui veglia Francoforte. «Siamo obbligati ad avere 19 elezioni ad un certo punto nel tempo – ha detto Draghi – Ciò che è importante è che queste differenze siano discusse all’interno dei trattati esistenti».

DUNQUE, finché il governo Legastellato seguirà la rotta indicata dalla Bce, e dai trattati europei, come è ormai chiaro, sarà lasciato tranquillo. Si può essere «populisti», neoliberisti, xenofobi ma finché non si toccano le tavole delle Legge tutto bene. Per Draghi è importante che i politici usino un «linguaggio» che «non distrugga i progressi che questi paesi hanno fatto al costo di tanto sacrificio». I sacrifici sono sotto gli occhi di tutti, i «progressi» molto meno. Sempre che poi non aumenti il deficit (non sarà così, ha assicurato il ministro dell’economia Tria) o non si tocchino le «riforme» come il Jobs Act (questo invece l’ha promesso Di Maio), o la «riforma» Fornero delle pensioni (bussola del «contratto» di governo). Elementi che potrebbero turbare la luna di miele.

MA LE SPALLE DELLA BCE sono larghe. E Draghi si è tenuto le mani libere. Il Qe sarà ridotto a 15 miliardi al mese da ottobre a dicembre, per poi ridurlo a zero a partire da gennaio 2019. Fino a settembre resterà agli attuali livelli di 30 miliardi al mese. Dopo proseguiranno gli acquisti dei titoli che giungono a maturazione. L’Eurotower ha stabilito di mantenere i livelli attuali almeno fino all’estate 2019 «e in ogni caso tutto il tempo necessario per assicurare che lo sviluppo dell’inflazione resti allineato con le attuali aspettative di un sostanziale percorso di aggiustamento».

LA FINE DEL QE è avvenuta principalmente perché il turbo monetario ha riportato l’inflazione vicino al 2%, rispettando il mandato della Bce. Tra il 2018 e il 2020 si attesterà all’1,7 medio nell’Eurozona. Secondo Draghi l’acquisto di oltre 2,5 miliardi di euro di debito ha portato la crescita continentale all’1,9%, anche se oggi questo livello è insidiato da un calo (nel 2018 dal 2,4 al 2,1%) e, soprattutto, dalla «guerra Stati Uniti-resto del mondo», così Draghi ha definito i dazi di Trump che rischiano di nuocere alle economie basate sull’export come la nostra. In ogni caso, il pilota automatico resterà attivo e alzerà le protezioni in caso di attacchi speculativi contro l’Eurozona. Gli acquisti, ha precisato Draghi, «restano parte degli strumenti di politica monetaria» e «potranno essere utilizzati in particolari situazioni». Gli investitori hanno apprezzato l’intervento di Mario «Whatever It Takes» Draghi. Ieri le Borse europee, dopo un’apertura negativa, hanno chiuso in forte rialzo (Milano +1,22%). In lieve calo anche il famoso spread.

L’USCITA SOFFICE dal periodo di dipendenza monetaria non sarà traumatica per i titoli di stato italiani. La sola ricopertura dei bond in scadenza assicurerà un’importante liquidità. In ogni caso la fine del «Qe» riporterà l’attenzione sempre di più sull’obbligo di diminuire il debito e un controllo più stretto della finanza pubblica per il 2019 e gli anni seguenti. L’austerità continua anche se la notte è colorata di gialloverde.

IL MESSAGGIO di Draghi ha prodotto la reazione critica del vice-premier Di Maio (M5S): «Avere avuto un italiano alla Bce ha sicuramente aiutato il paese – ha detto – Mi dispiace che il destino economico dell’Italia debba essere legato al suo presidente, e non per esempio al Parlamento europeo».

UNA POSIZIONE in contro-tendenza rispetto al ruolo di player indiscusso nella politica europea che Di Maio ha cercato di ammorbidire: «Non per offendere Draghi – ha continuato – ma credo che dobbiamo spostare il fulcro delle decisioni sulla qualità della vita dei paesi dell’Unione europea da una banca all’unico organo che noi eleggiamo direttamente: il Parlamento europeo».
Dopo gli avvertimenti pragmatici di Draghi, sembra l’anticipazione di un’idea di riforma dell’Ue e della stessa Bce. Tutta in salita, almeno a guardare il pandemonio creato dalla vicenda Aquarius, prima della riappacificazione con l’Eliseo. Di Maio sollecita una «riforma della governance europea» finalizzata a un rapporto «tra banca centrale europea e istituzioni europee in cui le decisioni che impattano sull’economia». Al centro il parlamento Ue.

IL DISCORSO da colomba di Draghi è stato recepito come un inequivocabile segnale a rispettare il «sentiero stretto» sui cui, bonus renziani a parte per imprese e lavoro dipendente, è stato seguito dagli ultimi governi. Su questo ha battuto l’ex ministro dell’economia Padoan. La fine del «Qe» non avrà un impatto immediato se i conti resteranno a posto, come li ha lasciati. Ed è in fondo quello che ha confermato il successore a via XX settembre Tria che ha assicurato che non ci sarà l’«uscita dall’euro» e rispetterà i saldi di bilancio nel 2018 e nel 2019 già stabiliti.

RESTANO TUTTAVIA molte incognite che agitano le acque della maggioranza. In ballo c’è, in primo luogo, c’è il problema della riduzione del deficit, in termini strutturali, dello 0,3% del Pil pari a 5,3 miliardi nel 2018 richiesto dalla Commissione Ue. E per il 2019 il taglio è doppio. E poi ci sono anche le promesse elettorali sulle spese extra-deficit, in aperto contrasto con la direzione opposta indicata da Draghi. La prospettiva è di una spesa per investimenti in deficit, necessaria anche per affrontare il progetto sul cosiddetto «reddito di cittadinanza», in realtà un «workfare» vincolato all’obbligo di accettare un lavoro. Il governo sta sondando gli altri paesi membri sul problema del rilancio degli investimenti. Ieri, ad esempio, Tria ne ha parolato nel suo incontro a Berlino con l’omologo tedesco Scholz.

NELLE ULTIME RACCOMANDAZIONI della Commissione Ue è stato chiesto all’Italia di usare le entrate per ridurre il debito pubblico, tra poco senza copertura del «Qe» di Draghi. Trovare una mediazione tra i paletti di Draghi, la vigilanza della Commissione Ue e le promesse dei pentaleghisti non sarà facile. In tre anni il paracadute del «Qe» ha tenuto un debito pubblico di 2.315 miliardi. Gli acquisti da 10,5 miliardi al mese hanno sostenuto la domanda di titoli di Stato, allentando la stretta del credito delle banche. Il problema è che ben pochi di questi soldi sono stati riversati nell’economia reale. Le banche li hanno usati per consolidare i loro patrimoni.

FONTE: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO



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