Manca solo il grido: «Ridateci Nizza e Mentone»
Dunque, oggi alla fine l’incontro Macron-Conte che rischiava di saltare tra bufere contrapposte, ci sarà. Perché fino a 24 ore fa ci mancava solo che Salvini rivolto al governo di Parigi gridasse: «Ridateci Nizza e Mentone», che l’afflato e i battimani sarebbero stati perfino più forti, in parlamento, sui giornali e nell’opinione pubblica diffusa ancorché eterodiretta fuori e dentro la rete.
Sotto i nostro occhi accade una mutazione di senso, antropologica, a fronte di un racconto a dir poco contraffatto della realtà. Il discorso in parlamento del neo-ministro degli interni, ma premier in pectore, non è stato infatti l’empito di una passione veritiera che si contrappone alle menzogne francesi.
È stata invece una chiamata di correo per i misfatti comuni che consumiamo ogni giorno contro i profughi in fuga dalla miseria prodotta dal nostro modello di sviluppo-rapina in Africa e dalle guerre che abbiamo avviato. Ma la Lega ha forse dimenticato che era al governo con Berlusconi nel 2011 quando, con il voto bipartisan del parlamento, scattò la guerra Nato a guida francese contro la Libia e ci restò ben salda, nonostante il disappunto?
Salvini avrebbe dovuto dire: «Sì è vero, per essere protagonista ho preso in ostaggio centinaia di persone dell’Aquarius ora in balia delle onde forza-quattro. Ma così fan tutti…». Invece, mentre rivendicava la chiusura dei porti contro ogni convenzione internazionale, è arrivato perfino a difendere «i volontari» italiani che hanno «sempre soccorso» i migranti – e giù l’applauso – . Ma sono gli stessi volontari che però lui ha criminalizzato e che continua a criminalizzare come «vice-scafisti»; inoltre, dati alla mano, rinfaccia a Macron che i respingimenti francesi alla frontiera di Ventimiglia sono stati più di 10mila, ed è tragicamente vero. Ma lo fa per silenziare il dramma che vivono sull’Aquarius in questi giorni e soprattutto per nascondere le decine e decine di migliaia di profughi che abbiamo ricacciato nelle mani della milizie libiche da noi foraggiate.
Quel numero ora fa bella mostra di sé nei dati dell’«eredità positiva» che Minniti con vanto gli ha lasciato: gli arrivi dalla Libia, il «posto sicuro» dove li esternalizziamo, sono diminuiti del 78%; vuol dire che decine e decine di migliaia di esseri umani sono bloccati nei lager libici, sulle coste o nel deserto senza via di scampo insieme ad altre centinaia di migliaia intrappolati da anni. Senza dimenticare che già nel 2012 la Corte di Strasburgo ha condannato a più riprese l’Italia per respingimenti in violazione del diritto internazionale. Non dice Salvini (ma toccherebbe a Moavero), che sul caos della Libia, come sul Niger – dichiarato «frontiera sud dell’Europa» dalla Commissione Ue – l’iniziativa diplomatico-neocoloniale è sempre nelle mani di Macron, come ha dimostrato il recente vertice di Parigi.
Non c’è che dire. Ripugnanti, ricordava Etienne Balibar nella sua intervista al manifesto dove ha denunciato il «genocidio» in corso nel Mediterraneo, sono tutti i Paesi europei che «si fanno paravento del gruppo di Visegrad». L’iniziativa del premier spagnolo Sanchez, davvero un cambio di passo umanitario rispetto al «popolare» Rajoy ma anche ai governi socialisti precedenti, è ahimè simbolica e ed episodica. Perché la realtà davanti ai nostri occhi è quella di una immensa fortezza reticolata, di una smisurata frontiera di fili spinati che va dai muri di lame di Ceuta e Melilla fino ai confini blindati e armati della Bulgaria, dal muro di fili spinati che si sta erigendo vicino Calais per comune accordo tra Londra-dopoBrexit e Parigi, alla muraglia di cavalli di Frisia dell’Ungheria alla Slovenia e al suo muro verso la Croazia, alla militarizzazione del confine austriaco… e potremmo continuare.
Muri che materializzano di fatto la volontà, nascosta o esplicita, di rifiutare, con la redistribuzione di quote rispetto ai flussi, ogni possibile accoglienza. Ma fatto ancora più grave, dai dati resi pubblici in questi giorni dalla Commissione Ue, si evidenzia che la spesa del Fondo europeo per la Difesa aumenta del 2.200% (passerà da 0,59 a 13 miliardi di euro): con questo bilancio pluriennale al termine del 2027 l’Unione europea avrà speso di più per la ricerca militare (soprattutto per militarizzare la questione migrazioni) che per gli aiuti umanitari. È dunque sul tappeto anche il nodo del lucroso mercato militare (droni e nuovi sistemi d’arma) per controllare l’evento epocale delle migrazioni climatiche, economiche, da guerre e da miseria.
La mutazione politico antropologica allora qual è? E davvero sono tutti eguali? No, non sono tutti eguali.
Lo scontro aperto in Europa è tra un’anima liberista europeista (ordoliberista nella forma teutonica, nazional-riformista in quella d’Oltralpe), rappresentata da Merkel, Macron, Juncker con la leadership della Commissione, che ragiona sempre sulla possibilità di gestire l’accoglienza dei migranti di fronte ad un Continente vecchio che non produce più gli esseri umani; e dall’altra un’anima sovranista, l’Europa delle patrie nazionali, statual-autoritaria che, mentre rivede lo stato di diritto internamente rifiuta ai confini l’accoglienza; confermata dall’attuale asse tra ministro degli interni tedesco Horst Seehofer, falco della Csu bavarese che vuole il via libera a un nuovo piano di espulsioni dalla Germania, Salvini e l’Austria a guida Kurz-Fpoe (coalizione tra Popolari ed estrema destra xenofoba) che – oltre alla presidenza Ue a luglio -, assume ormai la leadership di quello che fino a poco tempo fa era il gruppo delle piccole patrie di Visegrad (Ungheria, Polonia, Slovacchia, Rep. Ceca).
Il destino di questo scontro, per ora sulla pelle dei migranti, è eguale a quello che avanza con la guerra dei dazi di Trump: è esplosivo, la mia patria contro la tua. Lacerante per il mercato globalizzato ma anche per le stesse compagini sovraniste e xenofobe. Che restano le uniche però a muoversi a livello internazionale. Come dimostra la difesa a spada tratta di Salvini da parte della nazional-razzista Marine Le Pen di fronte allo scontro tra Francia e Italia.
FONTE: Tommaso Di Francesco, IL MANIFESTO
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