La tolleranza zero di Trump e la Guantanamo dei bambini

by Federico Rampini | 22 Giugno 2018 18:15

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EL PASO ( TEXAS) È qui che la tolleranza zero di Donald Trump sugli immigrati clandestini ha subito la sua prima disfatta. Gli avversari l’hanno chiamata la sua Guantanamo dei bambini. Oppure la Katrina di Trump, nel ricordo dell’uragano che devastò la Louisiana, la vergogna che macchiò l’Amministrazione Bush per la sua indifferenza di fronte alla tragedia. A queste tende “invisibili” che imprigionano bambini tuttora separati dai genitori, si arriva viaggiando lungo il confine Texas-Messico, quaranta minuti di autostrada da El Paso. Si costeggia quella recinzione fortificata a perdita d’occhio che è già una barriera insormontabile, ancor prima che Trump ci costruisca (se mai ci riuscirà) il Muro dei suoi sogni. Si lascia l’autostrada I-10 all’ultimo MacDonald con hamburger al guacamole, si esce a Fabens, si raggiunge Turnillo dove c’è uno dei ponti internazionali di passaggio verso Ciudad Juarez in Messico.

Le bandiere a stelle e strisce qui sono affiancate dall’orgoglioso vessillo texano, la stella unica, Lone Star. La temperatura oggi tocca i 42 gradi all’ombra. Siamo praticamente nel deserto. Se volevano nascondere il campo dei bambini, hanno scelto bene. In quest’area desolata e sperduta ora lo scandalo ha attratto il mondo dei media, incontro altri reporter e fotografi venuti da Miami, dal New Mexico, dalla Germania. Ma le tende della vergogna restano comunque inaccessibili, centinaia di metri di deserto e tante barriere recintate ci separano. Gli agenti della Border Patrol hanno ordini severi, ci circondano e ripetono inflessibili: «Non potete avvicinarvi, niente foto né video da qui».
Di rincalzo agli agenti federali ogni tanto veniamo avvicinati da vigilantes privati con strane divise — il business della lotta all’immigrazione clandestina ha la sua galassia dei subappalti — anche loro impegnati a sorvegliarci. I colleghi delle ricche tv americane hanno rubato immagini aeree grazie a elicotteri e droni (720 dollari di affitto per mezz’ora di ripresa). È solo sfuggendo nei cieli alla Border Patrol che si sono ottenutedall’alto le foto di quei bimbi in fila, all’ingresso dalle tende. Poi un visitatore segreto ha registrato e passato alla ong ProPublica i pianti e i singhiozzi, per la separazione brutale dai genitori arrestati e deportati altrove.
L’attenzione dei media ha aiutato almeno Rubén García, fondatore e direttore dell’Annunciation House. La sede di questa istituzione la visito nel centro di El Paso, è una decrepita palazzina di mattoni rossi, un piccolo porto di transito dove incontro migranti dal Sudamerica, dall’Asia e dall’Africa: salvo i bambini, tutti hanno il braccialetto elettronico ai polsi o alle caviglie. Arriva perfino — scortato da un’altra polizia privata dalla sigla misteriosa — un gruppo di brasiliani del Minas Gerais, nel loro lungo e tortuoso itinerario hanno scelto di tentare la fortuna con una domanda di asilo qui al confine di El Paso.
Annunciation House fu creata nel 1976 da cattolici ispanici, ammiratori di Martin Luther King. Offre assistenza e consulenza legale ai migranti, li ospita mentre sono in transito verso tribunali e centri d’accoglienza, mantiene fitti rapporti con associazioni umanitarie dei paesi d’origine.
Oggi Rubén García accompagna due famiglie di migranti nella traversata del ponte da Ciudad Juarez a El Paso, scortato dai giornalisti e ripreso dalle telecamere. I genitori portano dei cartelli. «Siamo richiedenti asilo.
Fuggiamo dal nostro Paese per la paura e il pericolo». «Così è trasparente — dice García — stanno seguendo le regole, rispettano la legge degli Stati Uniti, vogliono entrare secondo le procedure per l’esame delle richieste d’asilo».
Fino a pochi giorni fa, prima dello scandalo, prima dell’arrivo dei media, non c’erano garanzie di sfuggire all’arresto, né di evitare la separazione tra genitori e figli.
«Non avevo mai visto nulla di simile — dice García — in quarant’anni e sotto Amministrazioni di ogni colore, erano state tutte un po’ migliori di questa».
Ora non si respira affatto un’atmosfera di vittoria, malgrado la clamorosa retromarcia di Trump. Qui sul terreno, nel punto di transito Messico-Usa più controverso per via delle tende dei bambini, nessuno sembra sicuro che ci sia stata una vera svolta.
Certo il presidente è stato sorpreso e sopraffatto dalla forza delle condanne, in America e nel mondo. Ha dovuto rinnegare se stesso, ha firmato un decreto esecutivo che impone di tenere unite le famiglie anche in caso di arresto. Ma la formulazione dell’editto è piena di ambiguità, che non sfuggono agli esperti di diritto né ai volontari dell’assistenza umanitaria. Trump ribadisce tolleranza zero, quindi l’arresto senza eccezioni per l’immigrazione clandestina.
Promette di non separare più genitori e figli, ma non dice quale sarà il destino dei 2.300 minori già strappati dai genitori e reclusi in centri di detenzione come le tende di Turnillo. Trump non ha affatto promesso che non metterà più i bambini in gabbia: ha solo annunciato che in futuro saranno nelle stesse gabbie dei genitori.
Ma esistono poche carceri attrezzate per ospitare famiglie intere. E la legge — finché non viene riformata dal Congresso — stabilisce che i minori non possano essere trattenuti oltre i primi 20 giorni. Dove finiranno, se l’esame preliminare sui genitori dura più a lungo?
Il clima politico qui a El Paso — isola democratica dentro un Texas repubblicano — non è quello di New York o Los Angeles. Ieri sono venuti a manifestare sindaci progressisti da tante città americane, incluso il newyorchese Bill de Blasio. Anche loro tenuti a debita distanza dalla Border Patrol, con divieto di avvicinarsi alle tende dei bambini. Ma la “progressista” El Paso ha bocciato in un referendum la costruzione di un nuovo ponte verso il Messico, perché pensa che ce ne siano già fin troppi. La mia autista Uber, Belinda, è ispanica ma da 23 anni non osa varcare la frontiera «perché di là c’è troppa violenza, hanno dovuto perfino chiudere il Luna Park di Ciudad Juarez per le sparatorie». Sul tema dei minori strappati ai genitori alterna l’affetto («me ne prenderei qualcuno io») e la diffidenza: «Se non vogliono che i loro figli finiscano in un carcere americano, non devono attraversare la frontiera illegalmente, punto e basta».
Di certo la tolleranza zero non ha avuto il risultato principale che sperava Trump, quello su cui puntavano i suoi collaboratori John Kelly (Chief of Staff), Jeff Sessions (ministro della Giustizia), Kirstjen Nielsen (capa della Homeland Security). Doveva esserci secondo loro un potente effetto-annuncio: il messaggio da far pervenire ai Paesi d’origine, per dissuadere chi vuole tentare il viaggio della speranza. Gli ultimi dati dell’Onu sono usciti proprio ieri: gli Stati Uniti tra il 2016 e il 2017 cioè in piena Amministrazione Trump hanno visto aumentare del 27% le richieste di asilo. Con 331.700 richiedenti, sono di gran lunga il paese numero uno, molto davanti alla Germania (198.300). E se fin qui a El Paso sono arrivati perfino dei brasiliani dal Minas Gerais, vuol dire che le filiere sono ben organizzate.
Il ruolo delle ong umanitarie sembra impallidire di fronte a gruppi privati che sul business dell’accoglienza hanno creato dei piccoli imperi. La Southwest Key di Juan Sánchez domina gli appalti per i centri di accoglienza, grazie agli ottimi rapporti con la destra repubblicana che governa il Texas. Il giro d’affari di tutti questi business privati è stato stimato a 1,5 miliardi l’anno. Vi rientra anche il centro di accoglienza per minorenni Shiloh Residential Treatment a Manvel, Texas, oggetto di una dettagliata denuncia per l’abuso di psicofarmaci, imposti ad alcuni minori senza assistenza medica.
La denuncia è stata presentata ad aprile ma i fatti cominciano nel periodo 2011-2014, durante l’Amministrazione Obama.

Fonte: Federico Rampini, LA REPUBBLICA[1]

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  1. LA REPUBBLICA: http://www.repubblica.it/

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