Il nuovo sistema del lavoro gratuito secondo Luigi Di Maio
Workfare all’italiana. Gli scenari che si preparano e le molte incognite che gravano su una riforma epocale che avrà bisogno di anni per essere realizzata. E nel frattempo cosa si farà per i lavoratori poveri, precari e disoccupati?
Roma non avrà bisogno delle pecore per tosare l’erba dei parchi quando i beneficiari del presunto «reddito di cittadinanza», in realtà un sussidio minimo condizionato al reinserimento lavorativo, saranno obbligati a lavorare otto ore gratis ogni settimana per i comuni di residenza. Tra le attività di «pubblica utilità» a cui ieri ha alluso il ministro del lavoro Luigi Di Maio al congresso della Uil, potranno esserci anche quelle di giardinaggio. Attualmente ci sono 16 detenuti che svolgono questo lavoro nei parchi della Capitale.
CON IL «REDDITO» prospettato dal vicepremier pentastellato tutti coloro che entreranno a far parte dei programmi di «workfare» all’italiana saranno obbligati a sostituire la forza lavoro regolarmente assunta in cambio di un sussidio il cui massimale è stato fissato a 780 euro per il singolo (corrispondente al 60 per cento del reddito mediano netto, ma che in realtà sarà molto più basso. Se ad esempio il beneficiario ha una casa di proprietà in cui abita e ottiene una rendita di 400 euro, il suo reddito sarà di 380 euro netti, la differenza rispetto al massimale, per di più decrescenti e a tempo (massimo due anni). In cambiò dovrà partecipare a programmi di riqualificazione e formazione, accettare un’offerta di lavoro su tre e lavorare otto ore a settimana per la durata del programma.
SONO LE CARATTERISTICHE conosciute di un sistema che non è composto solo da «lavori socialmente utili» – come ieri hanno fatto notare da Forza Italia e dal Pd. Si tratta, invece, di una gigantesca razionalizzazione del sistema di lavoro coatto e gratuito, già diffuso in Italia a livello statale e locale, usato per sostituire forza lavoro regolarmente assunta. Nel progetto del governo questo sistema sarà coniugato con le politiche di attivazione adottate in Germania secondo le modalità del «workfare» che condiziona gli aiuti sociali all’obbligo di lavorare. Le stesse seguite, in piccolo, dal «reddito di inclusione» (ReI) del governo Gentiloni che richiede agli attuali pochi beneficiari (190 mila, la metà delle domande respinte, su oltre 5 milioni di poveri assoluti a maggio a causa dei criteri restrittivi scelti) un «impegno ad attivarsi» attraverso i servizi territoriali. Lo stesso che intende fare Di Maio con una differenza cubitale di fondi: 2 miliardi per la riforma futuribile dei centri per l’impiego, 17 per il «reddito di cittadinanza» contro i 2,3 dei «ReI» (3 nel 2020). Le polemiche del Pd sono improprie: tra i due strumenti esiste una differenza di scala, ma la natura è la stessa: una politica neoliberista ispirata alle teorie del Jobs search e della corrispondenza [matching] tra la domanda e l’offerta di lavoro povero. Il lavoro gratuito è l’eccezione. Inquietante.
IN QUESTO CONTESTO permane l’incognita sulla transizione dal sistema, incompleto, del ReI e quello nuovo del “reddito di cittadinanza”. Cosa succederà a coloro che hanno bisogno di un sostegno? Che fine farà il ReI che, ad oggi, è l’unico irrisorio e malinteso strumento per affrontare la situazione? La situazione non è affatto chiara.
LO STOP PER IL 2018 giunto ieri dal ministro dell’Economia Tria sembra vincolare la difficile elaborazione del nuovo progetto alla ricerca delle compatibilità di bilancio stabilite in accordo con i custodi dell’austerità di Bruxelles. Un’altra prova dell’incertezza, in un sistema caotico e malfunzionante, è stata data da Di Maio due giorni fa a proposito del finanziamento del «reddito» con il Fondo Sociale Europeo-Plus. Una prospettiva che preoccupa le regioni che hanno in mano una quota decisiva delle politiche del lavoro. La riforma dei centri dell’impiego – in realtà una rifondazione considerato il fallimento attuale (solo il 3% trova lavoro) – dovrà coinvolgerle. Catiuscia Marini, presidente della regione Umbria ha chiesto di stanziare nuovi fondi e non di sottrarre alle regioni quelli destinati alle politiche attive del lavoro.
DI MAIO HA ANNUNCIATO che incontrerà i tecnici tedeschi per capire anche di quali professionalità ci sarà bisogno per avviare la sua riforma. Serviranno psicologi, sociologi, economisti e tantissime altre figure. Si parla addirittura di 50 mila persone. In Germania sono 110 mila per 46 miliardi di spesa. Ancora non si sa come sarà neutralizzato il blocco del turn-over e se basteranno i 2 miliardi promessi per assumere queste persone. Quello che è certo è che oggi in Italia nei centri per l’impiego lavorano 9mila addetti, di cui 1.300 a tempo determinato. A gennaio sono state assunte 1.600 persone a termine. E 600 saranno dedicate alla gestione del «ReI». Numeri inadeguati rispetto alle ambizioni.
IGNOTA È LA SORTE dell’Agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) istituita dal Jobs Act che dovrebbe assumere il coordinamento delle attività dei Centri per l’impiego. Senza una riforma costituzionale (contenuta nel referendum del 4 dicembre 2016 perso rovinosamente da Renzi) che attribuisca allo Stato la competenza esclusiva su queste politiche non servirà a molto. Senza contare che su 1.300 addetti, più di 800 sono precari. È un paradosso tutto italiano: sono precari coloro che aiutano i precari a cercare un lavoro. Senza contare che, lo ha ricordato Di Maio, manca una banca dati nazionale necessaria per profilare il cittadino con un fascicolo personale elettronico che le aziende potranno consultare da Nord a Sud. Visto lo stallo attuale, saranno necessari anni per riorganizzazione questo nuovo sistema di sorveglianza.
FONTE: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO
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