I ministri degli interni che fanno la politica estera
In un fitto susseguirsi di fenomeni di imbarbarimento l’Europa si avvia verso il vertice del 28 giugno. Basta sceglierne qualcuno a caso per farsi un’idea di quanto velenosa sia diventata l’aria che si respira nel Vecchio Continente. Il ministro della giustizia britannico propone di fronteggiare l’esodo post Brexit dei lavoratori comunitari sostituendoli con i detenuti nazionali; la Danimarca, già all’avanguardia nella vessazione dei migranti, si propone di proibire la pratica della circoncisione.
L’Austria traduce la angosciosa atmosfera del Deserto dei Tartari in una carnevalata: grandi esercitazioni di massa alla frontiera per respingere una immaginaria invasione di migranti; il ministro dell’interno tedesco Horst Seehofer (Csu), in campagna elettorale nella sua Baviera, impone di fatto ad Angela Merkel la blindatura delle frontiere tedesche e quel “tetto” ai richiedenti asilo che la Cancelliera da sempre ritiene incompatibile con la natura e i valori della Bundesrepublik.
Salvini chiude i porti e apre la bocca per proferire a ripetizione minacce e oscenità. Tutti si prodigano nel rendere il più mefitico possibile l’ambiente per i migranti. Uno degli effetti perversi del nazionalismo montante in buona parte d’Europa è proprio la politica estera appaltata ai ministri degli interni. Monopolizzano la discussione sui Trattati, negoziano con i paesi extraeuropei (Libia, Turchia in primis), condizionano i rapporti tra i paesi europei, frammentandoli in presunti “assi” o alleanze, impongono le proprie fantasie geopolitiche.
E’ una conseguenza diretta del “primato” conferito all’interesse nazionale inteso soprattutto come schermo o protezione dalla comunità politica sovranazionale e dagli “altri” in generale. Trattandosi, poi, di ministri di polizia il sentore poliziesco è piuttosto intenso. L’idea nazionale è forse il più classico degli universalismi che si rovesciano nel loro contrario e cioè nel conflitto latente o dichiarato tra particolarità poco disposte alla mediazione.
L’apparentamento ideologico di principio tra nazionalismi racchiude sempre anche la larva della guerra.
L’Unione europea sta oggi soccombendo al fuoco incrociato del nazionalismo americano di Donald Trump e quello dei “primati nazionali” al suo interno che, a cominciare dall’Est, non si limitano affatto al rifiuto dei migranti, ma viaggiano verso idee di società ben diverse da quelle che abbiamo conosciuto nell’Europa occidentale del dopoguerra.
E’ dunque la natura di questo imbarbarimento dagli esiti imprevedibili che dovrebbe essere messa a fuoco, intanto per capire il contesto in cui ci troviamo. Il discorso xenofobo, e a maggior ragione quello apertamente razzista, ha qualcosa di indomabile e incontrollabile. A metterlo in moto sono state forze politiche, nella maggior parte dei casi marginali, che nel disorientamento diffuso generato dalle trasformazioni produttive e nell’attacco ai salari e alle condizioni di vita che le accompagnava avevano visto la possibilità di incanalarlo in una direzione nazionalista e autoritaria per conquistarsi una posizione centrale.
Su questa base, classicamente, il bersaglio dei migranti era quello più a portata di mano. Così, in un crescendo di violenze non solo verbali, le pulsioni xenofobe sono state costruite e ingrassate. Non perché le sottendesse una qualche filosofia razziale o una qualche concezione culturale identitaria, ma perché si trattava della via più semplice per acquisire consenso e potere. Questo vale tanto per un politico di lungo corso in declino come Horst Seehofer, quanto per avventurieri come Salvini o l’austriaco Herbert Kickl. Tre ministri degli interni che ambiscono al comando nei rispettivi paesi e in parte già lo esercitano.
Ma una volta risvegliato il cane rabbioso del razzismo, bisognerà continuare a nutrire la sua fame inestinguibile, rischiando di farsi trascinare lungo un pendio che perfino la destra xenofoba avrebbe preferito non percorrere. A questo punto la discriminazione-persecuzione-espulsione dei migranti diventa una condizione ineludibile del consenso. Qualunque cedimento su questo fronte farebbe gridare al tradimento. I capipopolo saranno quindi costretti a un crescendo di cinismo, brutalità, soluzioni spicce e messe in scena sempre più grottesche. Tanto più quanto meno le popolazioni “nazionali” vedranno mutare in meglio le proprie condizioni materiali.
Del resto, con toni più ipocriti e tortuose argomentazioni anche la sinistra riteneva di dover recuperare consenso dall’insofferenza nei confronti dei migranti. Con l’idea, smentita da qualunque esperienza storica, che bloccando i flussi migratori, razzismo e xenofobia sarebbero naturalmente scomparsi e che gli “italiani”, tornati al centro dell’attenzione e delle cure del proprio governo, avrebbero mostrato riconoscenza. Dovendo inoltre autoconvincersi che un poderoso passaggio storico non fosse altro che una “emergenza” che poteva essere risolta mettendosi a un tavolo con i “sindaci del sud della Libia”, come il ministro degli interni del Pd Marco Minniti definiva con involontario umorismo le bande di predoni e contrabbandieri che incrociano in quelle sabbie.
Da tutto questo non può che essere tratta una prognosi infausta. Per dirla con una formula l’Europa è sempre più ostaggio degli stati nazionali, dei loro veti, della demagogia che vi impera. E gli stati nazionali sono sempre più ostaggio e preda di destre radicalizzate, dedite a imporre un “noi” in cui annegare le contraddizioni sociali e consolidare quell’ordine gerarchico che è nella natura di ogni nazionalismo.
FONTE: Marco Bascetta, IL MANIFESTO
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