Alberto Brambilla, esperto di previdenza e già sottosegretario al Welfare nei governi Berlusconi tra 2001 e 2005, potrebbe essere l’uomo chiamato a rivoluzionare le pensioni degli italiani. E, dopo averlo scritto nel programma elettorale leghista, abolire davvero la legge Fornero.
Professore, si parla di lei per un incarico di governo nel ministero doppio Lavoro-Sviluppo Economico guidato da Di Maio, in quota Lega. Oppure al vertice dell’Inps. È così?
«Conosco da molti anni Matteo Salvini. Ho contribuito a scrivere il suo programma elettorale, nella parte previdenziale. Sono un tecnico. E mi piacerebbe fare il tecnico. Però certo sono stato contattato».
La “revisione” della Fornero è giudicata un’ipotesi pericolosa per i conti pubblici da molti osservatori. Siete decisi a procedere?
«L’idea è di premiare il lavoro, consentendo di uscire con “quota 100” o “quota 41”. E di asciugare la spesa per assistenza che vale oltre 100 miliardi all’anno, ma non esiste un’anagrafe e non sappiamo a chi vanno questi soldi e se ne ha diritto. L’allarme sui conti è infondato. La spesa per pensioni – depurata dall’assistenza – pesa solo l’11% sul Pil, in linea con gli altri paesi europei e sotto il 18,5% comunicato da Istat a Eurostat».
Il professor Cottarelli ha calcolato che se pure tutti i paesi Ue scorporassero assistenza e previdenza l’Italia non ne sarebbe avvantaggiata.
«Sbaglia. Perché considera i 200 miliardi di spesa al lordo delle tasse. In tasca ai pensionati ne finiscono però 150: il 25% va al fisco. In Germania siamo all’1%. E poi se Istat continua a dichiarare che mettiamo solo lo 0,1% del Pil per l’esclusione sociale – quando invece spendiamo 20 miliardi, contabilizzati in previdenza allora è logico che l’Europa ci dica che spendiamo troppo.
Intervenire in modo chirurgico sulla Fornero si può e in 3-4 mesi.
Poi entro un anno il nuovo Testo unico delle pensioni. I costi sono sostenibili».
Lei calcola 5 miliardi all’anno. Il presidente dell’Inps Boeri 20. Perché questa discrasia?
«Perché non si conosce la proposta. L’idea è di mandare in pensione chi ha almeno 64 anni con 36 di contributi. Oppure 41 anni e mezzo di contributi, a prescindere dall’età e non più di 2-3 anni di contributi figurativi, per escludere chi è stato in cassa integrazione per 10 anni, ad esempio. Consentire di uscire a 64 anni significa di fatto annullare lo scalone Fornero che ha portato l’età a 67 anni dal 2019. Ma guai a pensare che con quota 100 risolviamo ogni problema».
Cos’altro c’è?
«Bisogna puntare sui fondi esuberi o di solidarietà che esistono già per ogni categoria professionale. E replicare il modello del settore bancario che grazie al suo fondo – alimentato dallo 0,30% pagato su ogni retribuzione lorda – dal 2000 ha mandato in pensione 60 mila dipendenti senza gravare sullo Stato. Non deve più esistere un caso Tim, in cui l’azienda per alleggerire il suo debito mette in cassa integrazione a rotazione 15 mila dipendenti. E chi paga? La collettività».
Ma cosa c’entra con “quota 100” e “quota 41”?
«Grazie ai fondi di categoria, tutti coloro che hanno problemi seri di salute o di famiglia e che vogliono andare in pensione prima potrebbero usare quello scivolo».
Oggi sono coperti dall’Ape sociale e possono uscire a 63 anni.
«L’Ape sociale verrebbe abolita.
Pesa per 1,5 miliardi all’anno sui conti pubblici. Ed è molto discrezionale. I 150 mila lavoratori, potenziali beneficiari nei 5 anni, andrebbero in carico ai fondi. Ecco perché questa riforma potrebbe costare meno dei 5 miliardi stimati».
Come interverrete sull’assistenza?
«Andrebbe unificato il corpo medico di Inps e Inail perché vigili su invalidità e inabilità, togliendo il monitoraggio alle Regioni. Risparmiare il 4%, stanando i furbi, su una spesa da 112 miliardi annui non è fantascienza. Sarebbe altrettanto giusto raddoppiare le pensioni di invalidità. Ma quelle vere».
E l’Ape volontaria, l’autoprestito per anticipare la pensione?
«Rimarrebbe, perché costa poco allo Stato. E resta anche l’adeguamento automatico all’aspettativa di vita. Quando si dice che rivedere la Fornero costa, non si ricordano mai i 12-14 miliardi spesi per le 8 salvaguardie degli esodati».
Il Jobs Act cambierà?
«Ha cose buone, ma va destrutturato. Bisogna scendere da 1.000 pagine a un nuovo Statuto del lavoro da 30-40. Poi ridurre la precarietà, cancellando il decreto Poletti. Il contratto a tempo non può durare più di 24 mesi e 3 proroghe. E se le aziende vogliono chiuderlo devono dirlo 60 giorni prima. Non toccherei l’articolo 18. Ma ripristinerei i voucher da 10 euro, limitati ai settori originari: agricoltura, babysitting, giardinaggio, pulizie. Fisserei il salario minimo orario a 9 euro. E abolirei gli sgravi sulle assunzioni dei giovani che non funzionano. Sostituiti da un super-ammortamento: se il costo del lavoro è 100, il primo anno l’imprenditore ammortizza 130, poi 125, 120 e così via. Nel giro di sei anni quel costo è ripagato»
Dove troverete tutti i soldi per fare anche il Reddito di cittadinanza?
«Ci aiuterà il riordino degli ammortizzatori introdotti con il Jobs Act. Inutile tenere in piedi Naspi, Discoll, Asdi, reddito di inserimento. Della Naspi manterrei solo il décalage e lo applicherei al Reddito di cittadinanza. Per spronare chi lo riceve ad attivarsi per un lavoro».
In Portogallo finisce ufficialmente il «piano di salvataggio». Lisbona è in preda a una strana eu(ro)foria. Eppure la disoccupazione è al 15%, e il debito pubblico vola al 130% del Pil. Dopo tre anni di cura Barroso, il 20% dei portoghesi vive sulla soglia di povertà. E nel 2014 la produzione cala ancora
Esistono problemi talmente grandi e a tal punto complessi che è facile essere indotti a credere che non avranno mai soluzione. La fame è uno di questi. Dubito che sia mai esistito un periodo nell’intera storia dell’umanità nel quale tutto il genere umano ha avuto da mangiare a sufficienza. Perfino oggi, in un mondo nel quale è possibile comunicare a distanza di migliaia di chilometri soltanto premendo un tasto, otto milioni di esseri umani patiscono cronicamente carestie in Africa orientale. In tutto il pianeta sono circa un miliardo gli uomini, le donne e i bambini che anche questa notte andranno a dormire affamati.
NEW YORK — Eileen Zhang, «numero due» del dipartimento di Standard & Poor’s che analizza i debiti sovrani (governativi) di Europa, Medio Oriente e Africa e che ieri ha dato giudizi affilati sull’Italia, è una cinese che ha studiato in un’università del Paese asiatico prima di frequentare il Bard College nello Stato di New York e la London School of Economics. Il suo capo, Moritz Kraemer, quello che ieri ha condotto la presentazione del «downgrading» del nostro Paese, è un tedesco.