by Giusepe Sarcina | 21 Maggio 2018 9:52
WASHINGTON Nella serata di sabato a Washington si era diffusa la sensazione che la due giorni di trattative tra Stati Uniti e Cina fosse fallita. Il comunicato sembrava troppo generico, una semplice ricognizione dei problemi sul tavolo. Invece gli interventi del vice primo ministro cinese Liu He e del Segretario al Tesoro Steven Mnuchin hanno cambiato completamente il quadro.
Il «disarmo bilaterale», via i nuovi dazi, significa che il negoziato è vivo e anzi può davvero portare alla fine della guerra commerciale tra le due super potenze economiche del pianeta.
Vedremo oggi quale sarà la reazione dei mercati finanziari. Ma, al momento, oggettivamente, questo è un risultato positivo ottenuto dall’amministrazione guidata da Donald Trump. Naturalmente ci sono molti ostacoli per trasformare i progressi di ieri in un vero e solido successo.
Il punto di caduta dell’eventuale accordo non sarà quello annunciato dai tweet del presidente. La Cina non acquisterà a breve 200 miliardi di merci in più dagli Stati Uniti. Se non altro per un motivo molto semplice. L’economia americana non è in grado di soddisfare, nel breve periodo, un aumento così cospicuo dell’export destinato alla Cina: il 50% del totale attuale. Gli Usa vorrebbero vendere più shale gas e ancora più derrate agricole a Pechino. E qui c’è la prima difficoltà: il combustibile ricavato spaccando le rocce costa il 20% in più rispetto a quello russo, per esempio. Inoltre i cinesi sono più interessati alle merci ad altissimo contenuto tecnologico. Ma a Washington il Pentagono vigila: attenzione a cedere articoli che potrebbero avere anche un’applicazione militare.
Tuttavia, e non era affatto scontato, la delegazione cinese ha riconosciuto che i rapporti commerciali tra i due Paesi sono sbilanciati in modo ormai strutturale. Basta guardare le statistiche: nel 2016 il deficit americano era pari a 374 miliardi, nel 2017 a 375 miliardi. Una correzione, anche se non di 200 miliardi di dollari, appare probabile. Questo significa che, almeno nella fase iniziale, la Cina potrebbe diminuire le importazioni da altre regioni, Europa compresa, a favore del «made in Usa». Ma anche qui si vedrà, perché nel comunicato diffuso si fa riferimento ai «crescenti consumi cinesi», quindi a una teorica domanda aggiuntiva, a una maggiore apertura del mercato interno che non dovrebbe pregiudicare le posizioni già acquisite da altri fornitori stranieri.
Il negoziato, invece, sembra promettere un vantaggio per tutti, non solo per Trump. Il grande Paese orientale, guidato da Xi Jinping, si impegna «a cambiare la normativa sui brevetti» e sulla proprietà intellettuale, eliminando le clausole capestro che obbligano le imprese straniere a condividere le conoscenze tecnologiche con partner locali. Sarebbe una svolta importante.
L’Unione Europea potrebbe farsi avanti, chiedendo per le proprie aziende lo stesso trattamento eventualmente accordato alle multinazionali statunitensi.
FONTE: Giusepe Sarcina, CORRIERE DELLA SERA[1]
photo: By The White House from Washington, DC [Public domain], via Wikimedia Commons
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