by Tommaso Di Francesco | 22 Maggio 2018 11:39
«Sultan Erdogan», «Sultan Erdogan» hanno urlato 15mila “turchi d’Europa” che gremivano domenica scorsa il palazzetto di Zetra a Sarajevo, con sventolio di bandiere turche e bosniache. Erdogan – dopo un giro d’affari anche in Serbia – ha scelto il bagno di folla nella capitale della Federazione croato-musulmana (ormai a stragrande maggioranza islamica), a quasi un mese dalle elezioni politiche e presidenziali in Turchia del 24 giugno, e di fronte al rifiuto dei suoi comizi da parte di Germania, Austria e Olanda dopo il referendum di aprile 2017 sul rafforzamento dei suoi poteri. Obiettivo dichiarato la diaspora turca di più di tre milioni di elettori. Quello provocatorio, rimettere piede nei Balcani a pochi giorni dal vertice Ue di Sofia sull’allargamento all’Europa del sud-est e chiuso con un nulla di fatto o rigetto. Una grave responsabilità Ue dopo avere legittimato, a inizi anni Novanta, i nazionalismi riconoscendo le nuove patrie ex jugoslave proclamate su base etnica. Una bomba quella di Erdogan. Innescata in terra ex jugoslava devastata dalle guerre fratricide e a partecipazione Nato. E tutt’altro che pacificata. Ogni Paese mostra ancora le sue ferite e voragini di nodi irrisolti, al proprio interno e ai nuovi amari confini che, da separazioni amministrative di uno stesso Stato, sono diventati muri di separazione. Vale per i conflitti: tra Slovenia e Croazia, tra Macedonia e Grecia, ora tra il Montenegro appena entrato nella Nato e Albania; tra la Serbia e l’ex provincia del Kosovo, proclamatosi unilateralmente indipendente nel 2008 grazie alla guerra e all’occupazione della Nato, che molti Paesi Onu e quattro Ue non riconoscono.
Ma la tensione più forte è in Bosnia Erzegovina, dove la «pace di carta» di Dayton lascia sul campo una Federazione tra croati e musulmani sempre in contrasto e la Repubblica serba di Bosnia, invisa ad entrambi, identitaria e fortemente arroccata; né bastano istituzioni sulla carta tripartite ed egualitarie. La tragedia del sangue versato pesa come un macigno. Senza parlare delle rotte della disperazione dei migranti che, allontanati dal Mediterraneo dall’Ue sono stati poi «venduti» al dominio ottomano turco-libico. E senza dimenticare i foreign fighters di ritorno qui dalle ultime guerre mediorientali. Erdogan ha scelto Sarajevo, nella Bosnia che era parte dell’Impero ottomano. E nei Balcani la storia non passa. Al di là delle affermazioni identitarie islamiste, subito con lui si è schierato il presidente di turno della presidenza bosniaca, il musulmano Bakir Izetbegovic, per il quale «è stato Dio a mandare Erdogan al suo popolo». Quale dio? Visto che né i rappresentanti serbi né quelli croati hanno partecipato ai colloqui bilaterali.
FONTE: Tommaso Di Francesco, IL MANIFESTO[1]
photo: kremlin.ru [CC BY 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/4.0)], via Wikimedia Commons
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