Campagna di fake news, dalla penale ai fondi europei, per salvare la TAV
Da qualche tempo si alza, di tanto in tanto, un coro per deprecare le fake news che invadono i social provocando disinformazione e tensioni disgregatrici dell’ordine costituito. Naturalmente tacendo che – come è stato scritto di recente da Gianandrea Piccioli «l’enfasi con cui si condannano generalmente le fake news dei cittadini diventati sudditi sembra funzionale al conflitto per il monopolio della verità, che deve appartenere solo alle élites finanziarie che hanno azzerato la politica e organizzato la governance mondiale secondo criteri aziendalistici». Gli esempi di questo spregiudicato condizionamento dell’opinione pubblica sono infiniti, a cominciare, su scala internazionale, dall’invenzione angloamericana del possesso di armi di distruzione di massa da parte di Saddam Hussein, funzionale a giustificare la guerra all’Iraq con connessa «esportazione della democrazia» in quel paese.
Più in piccolo accade in Italia in questi giorni, a margine del programma concordato tra Movimento 5Stelle e Lega per quello che avrebbe dovuto essere il Governo della Repubblica, ma con una validità che va oltre la contingenza.
Un passaggio di quel programma («Con riguardo alla Linea al Alta Velocità Torino-Lione ci impegniamo a ridiscutere integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia»), seppur modesto e corrispondente a una richiesta risalente di tecnici e intellettuali oltre che del movimento No Tav, ha, infatti, riportato al centro del dibattito la questione del Tav in Val Susa. Immediata la fibrillazione e il fuoco di fila dei promotori (pubblici e privati) dell’opera, dell’establishment affaristico finanziario che la sostiene e dei grandi media ad esso collegati, sfociata in una martellante campagna per denunciare che la rinuncia all’opera comporterebbe, per l’Italia, il pagamento di mirabolanti e insostenibili “penali”. In questa campagna – nella quale si è distinta, sin dal primo giorno, Repubblica – si sono, esibiti, senza preoccuparsi di fornire pezze d’appoggio, editorialisti, opinion makers, “esperti” di ogni ramo del sapere e sconclusionati ospiti fissi di talk show televisivi alla ricerca di audience (da ultimo, a Carta Bianca, Massimo Cacciari e Mauro Corona). E ciò – si noti – a fronte non già della ventilata rinuncia all’opera ma della semplice intenzione di avviare un confronto al riguardo con il Governo francese.
Eppure l’affermata esistenza di penali consistenti – quantificate da solerti gazzettieri in due miliardi o più – altro non è che una clamorosa fake news o, per dirla in modo più casereccio, una colossale bufala. In realtà la rinuncia all’opera non comporterebbe alcuna penale. Infatti:
– non esiste alcun documento europeo sottoscritto dall’Italia che preveda penali di qualsiasi tipo in caso di ritiro dal progetto;
– gli accordi bilaterali tra Francia e Italia non prevedono alcuna clausola che accolli a una delle parti, in caso di recesso, forme di compensazione per lavori fatti dall’altra parte sul proprio territorio;
– il nostro codice civile prevede, in caso di appalti già aggiudicati che, ove il soggetto appaltante decida di annullarli, le imprese danneggiate hanno diritto a un risarcimento comprensivo della perdita subita e del mancato guadagno che ne sia conseguenza immediata (per un ammontare che, di regola, non supera il 10 per cento del valore dell’appalto). In ogni caso, ad oggi, non sono stati banditi né, tanto meno, aggiudicati appalti per opere relative alla costruzione del tunnel di base.
Egualmente infondata è l’affermazione, talora affiancata quella relativa alle penali, secondo cui l’eventuale rinuncia imporrebbe all’Italia la restituzione all’Unione europea dei contributi ricevuti per la realizzazione dell’opera. Infatti i finanziamenti europei sono erogati solo in base all’avanzamento dei lavori (e vengono persi in caso di mancato completamento nei termini prefissati), sì che la rinuncia di una delle parti interessate non comporterebbe alcun dovere di restituzione di contributi (mai ricevuti) bensì, semplicemente, il mancato versamento da parte dell’Europa dei contributi previsti. Si aggiunga che ad oggi i finanziamenti europei ipotizzati sono una minima parte del 40 per cento del valore del tunnel di base e che ulteriori (eventuali) stanziamenti dovranno essere decisi solo dopo la conclusione del settennato di programmazione in corso, cioè dopo il 2021 (e dopo le elezioni del Parlamento europeo nel 2019).
La fake news non potrebbe essere più clamorosa. E c’è di più. I meno sbracati tra i sostenitori della nuova linea ferroviaria glissano sulle penali e sostengono che, comunque, la rinuncia all’opera comporterebbe per l’Italia una perdita secca di quanto sinora speso per le attività preparatorie (compreso lo scavo del tunnel geognostico), pari a circa un miliardo e 500 milioni. Vero. Ma l’affermazione è, a ben guardare, un boomerang. Se, come sostengono le analisi più accreditate di costi e benefici (da quella risalente di Prud’Homme a quella più recente di Debernardi e Ponti), la realizzazione del tunnel di base determinerebbe per gli Stati interessati una perdita economica oscillante tra i 3,4 e i 10 miliardi di euro, la domanda diventa del tutto retorica: conviene di più contenere i danni (mettendo una croce sopra il miliardo e mezzo colpevolmente speso sino ad oggi) o continuare in uno spreco di miliardi per un’opera che più passa il tempo più si rivela inutile?
FONTE: Livio Pepino, IL MANIFESTO
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