Addio a Ermanno Olmi. Racconto dell’Italia nella trama in filigrana di un amore

by Luca Mosso | 8 Maggio 2018 8:40

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Ermanno Olmi, è stato il regista che meglio ha raccontato la trasformazione dell’Italia in moderno paese industriale. Tutti i film realizzati dal 1959 al 1974 – con la significativa eccezione di E venne uomo – sono ambientati nei luoghi del lavoro. La diga di Il tempo si è fermato, gli uffici di Il posto, la fabbrica di I fidanzati, l’agenzia di pubblicità di Un certo giorno sono teatro di storie che non potrebbero svolgersi altro che lì, espressione di conflitti e dilemmi sconosciuti fino a pochi decenni prima e decisamente poco frequentati dal cinema italiano di quegli anni.

In questa scelta non c’è traccia di eccentricità o di partiti presi: semplicemente Olmi porta sullo schermo quello che conosce meglio, per averlo frequentato dall’interno da dipendente della Edisonvolta negli anni cinquanta e per aver continuato a ragionarci sopra senza pregiudizi. Si tratti di costruire un personaggio o di raccontare una storia, Olmi parte sempre da una base autobiografica. Per Olmi, «essere nelle cose» è l’esperienza diretta di una realtà, e non il risultato di «grandi sintesi di pensiero», ed è grazie a questo suo pragmatismo da autodidatta che riesce a vedere e raccontare il lavoro e la fabbrica senza il filtro ottundente dell’ideologia.

Questo non significa, tuttavia, che Olmi difetti di una forte istanza progettuale: l’idea stessa di raccontare nel suo primo capolavoro, I fidanzati (1963) «un’immigrazione alla rovescia» è allo stesso tempo un espediente drammaturgico («Se non hai l’antitesi non capisci» ha spiegato nel libro -intervista di Owens. «Tutta la drammaturgia si basa sull’antitesi») e un elemento di critica sociale e politica nei confronti della classe dirigente italiana che vede nell’industrializzazione del Sud solo un’occasione per lucrare sui finanziamenti statali.

La Sicilia è quindi la materializzazione dell’antitesi, il luogo lontano da cui è possibile vedere meglio la realtà vicina. Il paese dove Giovanni, operaio inviato al petrolchimico siracusano di Priolo per contribuire alla formazione degli operai del luogo, riconsidera la sua vita e si rimette in contatto con la fidanzata Liliana e quello in cui lo spettatore vede con estrema chiarezza la portata della mutazione antropologica imposta dal sistema di fabbrica ai contadini che diventano operai. L’indubbia portata simbolica della scelta non è disgiunta dalla consueta concretezza dello sguardo del regista, che non cade mai nel cliché e, anche quando il rischio del folklore è alto, trova una chiave espressiva originale.

È così nella sequenza del carnevale di Paternò, che rivaleggia con le migliori prove del coevo documentarismo «demartiniano», ed è così anche nella silenziosa sequenza che racconta la visita di Giovanni alle saline, dove una sospensione di marca «antonioniana» viene stemperata da una serie di precisi dettagli sulla semplice tecnologia eolica utilizzata per le operazioni di estrazione. Anche nei passaggi che descrivono lo spaesamento dei neoassunti, Olmi non è mai troppo dimostrativo e riesce sempre a tenere aperta la lettura.

Quando racconta l’aneddoto più gustoso, quello dei neoassunti che non si presentano al lavoro nelle giornate di pioggia, prima ne sfrutta l’effetto comico, ma poi sceglie di chiudere il film con un violento temporale, durante il quale lo sguardo di Giovanni sembra dubitare che i contadini avessero del tutto torto a starsene a casa. La chiusa, aperta e un po’ enigmatica, è uno dei punti forti del film: ad un passo dalla sua sintesi narrativa, la dialettica del film si blocca e quel che viene consegnato allo spettatore è il desiderio del suo completamento. E così a dispetto delle tante critiche da sinistra che a suo tempo il film subì, il «cattolico da sacrestia» Olmi appare il più modernamente politico di tutti, problematico e critico come deve essere un artista. Ci piace pensare che questa sia la sua vitale eredità.

FONTE: Luca Mosso, IL MANIFESTO[1]

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  1. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

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