by Rachele Gonnelli | 11 Maggio 2018 9:52
Sono sempre più «amare», nel senso di inquinate, le acque dolci italiane, sia superficiali che sotterranee. A certificarlo è l’ultimo rapporto Ispra sui residui di pesticidi nelle acque, relativo al biennio 2015-2016, il più completo sforzo di monitoraggio capillare su tutto il territorio italiano con riferimenti anche ai sedimenti storici e alla loro interferenza con i nuovi prodotti utilizzati .
Il rapporto si basa sui campioni prelevati, purtroppo ancora abbastanza a discrezione, dalle Regioni e dalle aziende locali per la protezione ambientale e si preoccupa di fornire linee guida, che sono: aumentare i dati, armonizzare le ricerche e investire su ricerca e innovazione per l’agroecologia. Cioè filiera sostenibile e a chilometro zero che riduca l’uso di prodotti chimici.
L’INDAGINE è corposa anche se non è ancora esaustiva, basti pensare che su 400 sostanze chimiche potenzialmente tossiche in concentrazione ma autorizzate e reperibili sul mercato per essere impiegate in agricoltura soltanto 259 sono state cercate e rintracciate. Le analisi sono lacunose in particolare nelle regioni del Centro-Sud: su 35.353 «provette» analizzate nel biennio 2015-2016, per un totale di quasi 2 milioni di misure analitiche, il 50% dei punti di monitoraggio si concentra nel Nord mentre nel resto del Paese la campionatura è disomogenea e a maglie molto, troppo, larghe, con il «buco nero» della Calabria, dove campeggia un disastroso cartello «non pervenuta».
DELLE PERICOLOSITÀ DEI MIX poi poco o niente si sa, considerando che si è osservato che la pericolosità è determinata al 90% dall’effetto tossico cumulativo, cioè da ciò che si sedimento in natura tra gli «antichi» inquinanti, alcuni dei quali oggi proibiti e non più in vendita, e i più recenti.
IL PIÙ FAMOSO ERBICIDA oggi si chiama glifosato, ad esempio, ma che dire dei livelli ancora alti del Ddt con cui durante i primi anni Cinquanta venivano irrorati a pioggia i campi dagli aerei militari americani o dell’ex celebre atrazina, altro erbicida bestia nera della campagna ambientalista che portò al referendum del 1990 – però senza quorum – per la sua messa al bando. Oggi il veleno peggiore, perché il più diffuso nelle acque, oltre al glifosato, si chiama Ampa ed è il metabolita che si ottiene dalla degradazione del glifosato stesso, immesso a man bassa nelle acque reflue da almeno quarant’anni perché oltretutto presente anche in moltissimi detersivi per la casa.
Il glifosato e i suoi derivati, anche se potenzialmente cancerogeni, non sono però i veleni peggiori trovati nei campioni analizzati dai laboratori Ispra. Nell’elenco dei veleni dai nomi che sembrano medicine ce ne sono di tossicità massima, con effetti sull’apparato respiratorio e sugli occhi, e poi i più comuni insetticidi come imidacloprid, e fungicidi come i tradimenol, oxadixil e metalaxil. Tutti questi sono nelle acque sotterranee di 260 punti di rilevamento (l’8,3% del totale) con concentrazioni superiori ai limiti.
LA PRESENZA DI PESTICIDI nel periodo 2003-2016 è cresciuta del 20% nelle acque superficiali e nel 10% di quelle sotterranee. La contaminazione riguarda il 67% dei punti di acque superficiali monitorate e il 33, 5 % di quelli delle acque profonde, dove evidentemente la saturazione è tale da non permettere una diluizione. Tanto che Giorgio Zampetti, direttore di Legambiente, avverte come la situazione di fiumi, laghi e falde acquifere sia «sempre più preoccupante».
L’aumento dipende in realtà in parte da un campionatura più estesa e accurata, soprattutto nella pianura padana, ma è la persistenza di questi agenti chimici nell’ambiente che aumenta i livelli di rischio con l’accumulo nella catena alimentare che dispiega effetti a lungo andare soprattutto sul sistema endocrino umano e può, a livello di specie, ridurre la capacità riproduttiva.
C’è da dire, come nota di speranza, che la vendita dei prodotti fitosanitari più pericolosi dal 2001 al 2014 in base ai dati Istat è sensibilmente diminuita (-12% e -22% per principi attivi) ma si è diffusa quella dei diserbanti e insetticidi più comuni passando, dopo dieci anni di riduzione, a un rialzo fino a 136 mila tonnellate commercializzate nel 2015 (erano 130 mila soltanto l’anno prima).
FONTE: Rachele Gonnelli, IL MANIFESTO[1]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2018/05/98733/
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