by Michele Giorgio | 6 Maggio 2018 11:20
Sullo sfondo ci sono i profughi palestinesi e siriani e una nuova possibile guerra tra Israele e movimento sciita
Intervistato da un giornale internazionale, Yusef Sanjar, ha raccontato che l’ultima volta che si è votato per il rinnovo del Parlamento libanese, quasi dieci anni fa, era tornato a casa da Riyadh grazie a un biglietto aereo pagato dalla sua azienda, il colosso delle costruzioni Saudi Oger Construction Company, di proprietà degli Hariri, la famiglia libanese sunnita più potente e stretta alleata dei sauditi. E a Sidone, la sua città, fece campagna a favore di Saad Hariri, che aveva preso il posto del padre Rafiq (assassinato nel 2005). La Saudi Oger ora è a pezzi, crollata sotto i colpi del mercato e dei cambiamenti avvenuti ai vertici della monarchia sunnita che ha scaricato Saad Hariri perché troppo “debole” verso gli avversari sciiti del movimento Hezbollah alleato dell’Iran. Yusef Sinjar, come altre migliaia di libanesi alle dipendenze di Saad Hariri e della zia Bahiya, ha perduto tutto. La sua professonalità vale ben poco in un Paese dove la disoccupazione ufficiale è al 20% e quella reale è almeno al 30% e dove gli stipendi sono molto più bassi rispetto a quanto percepiva in Arabia saudita. Era un benestante ora vive quasi in povertà. Gli Hariri l’hanno abbandonato. «A queste elezioni certo non voterò per Saad Hariri e il suo partito Mustaqbal (Futuro) e come me faranno tanti altri abitanti di Sidone», ha spiegato all’intervistatore.
Le elezioni parlamentari che si terranno oggi in Libano, nonostante il nuovo sistema elettorale sia passato dal maggioritario al proporzionale, non modificheranno troppo i rapporti di forza tra i due schieramenti avversi: il fronte 8 Marzo filo-siriano guidato da Hezbollah e il fronte 14 marzo filo-occidentale capeggiato da Mustaqbal. Sanciranno comunque la decadenza della famiglia Hariri anche in politica, oltre che in economia. Saad Hariri, premier uscente, con ogni probabilità, grazie al “Patto Nazionale” del 1943 che assegna la carica di primo ministro ai sunniti, riuscirà a farsi riconfermare a capo del governo. Il suo prestigio è al punto più basso anche per essere stato costretto, all’inizio di novembre, a dare le dimissioni, annunciate da Riyadh e sotto la pressione (di fatto era agli arresti domiciliari) dei regnanti sauditi, e a dichiarare guerra aperta a Hezbollah e all’Iran. In Libano tutti sanno che Hariri è riuscito a tornare a casa grazie all’intervento sui Saud del presidente francese Macron e non dimenticano che una volta a Beirut ha subito ritirato le dimissioni tra le battutine feroci di amici e avversari sulla sua credibilità. Mustaqbal, che ora ha 26 dei 128 seggi del parlamento uscirà fortemente ridimensionato dal voto e Hariri per tenere a bada gli oppositori interni al blocco sunnita – in particolare quelli che fanno riferimento al generale Ashraf Rifi – sarà ancora più dipendente da un accordo proprio con i nemici di Hezbollah, che ha provato a combattere in ogni modo senza successo per 13 anni. Un accordo a condizioni ben più sfavorevoli rispetto a quello che nel dicembre 2016, chiudendo una lunga paralisi istituzionale, gli riconsegnò la carica di primo ministro in cambio della nomina a capo dello stato del cristiano Michel Aoun, alleato di Hezbollah.
Non sorprende che nella campagna elettorale sia passato in secondo piano l’appello che Hariri lanciò al rientro in Libano per la «dissociazione» dei libanesi dai conflitti nel resto della regione, rivolto a Hezbollah che combatte con migliaia di uomini a sostegno dell’esercito siriano. «Anche la questione del disarmo di Hezbollah chiesto per anni da Hariri e dai suoi alleati è stata affrontata marginalmente durante la campagna elettorale, di fatto è stata accantonata», ha scritto Joseph Bahout, del Carnegie Middle East center. Hariri in declino spinge verso il basso anche i suoi alleati, i leader delle Forze Libanesi, Samir Geagea, e della Falange, Sami Gemayel, entrambi di destra. Stabile ma meno influente emergerà dal voto il Partito socialista progressista del leader druso Walid Junblatt.
Il nuovo sistema di voto dovrebbe a favorire Hezbollah e le altre formazioni del fronte 8 Marzo – Corrente dei patrioti liberi di Michel Aoun, la principale formazione armena Tashnaq, e l’altro partito sciita, Amal, guidato come sempre dal presidente del parlamento Nabih Berri – nonostante le 15 circoscrizioni elettorali in cui è stato suddiviso il Libano siano abbastanza omogenee dal punto di vista confessionale e, pertanto, non destinate a produrre alle urne sconvolgimenti radicali. A dispetto delle previsioni fatte qualche mese fa, conterà relativamente poco il voto dei libanesi all’estero (è la prima volta che accade) sul totale dei 3,7 milioni di elettori. Il movimento sciita e i suoi alleati perciò potrebbero riconquistare la maggioranza dei seggi del Parlamento per la prima volta dal 2005. Ma non cantano vittoria in anticipo, anzi Hezbollah è stato cauto e ha cercato di tenere la Siria fuori dalla sua campagna elettorale per puntare su temi generali di interesse di tutti i libanesi: la disoccupazione, la cronica corruzione della classe politica e degli amministratori locali, il debito pubblico al 150% del Pil che schiaccia il Paese, la pessima distribuzione di acqua ed elettricità e la lotta alla povertà. A suo favore gioca l’immagine di nemico del jihadismo che ha combattuto ai confini tra Libano e Siria garantendosi le simpatie anche di una porzione di libanesi cristiani. Hezbollah e i suoi alleati dovrebbero assicurarsi 40-41 seggi nel nuovo Parlamento, grazie anche a voti che arriveranno da sunniti filo-siriani schierati contro Hariri.
Sullo sfondo delle elezioni ci sono 1,5 milioni di rifugiati siriani e il mezzo milione circa di profughi palestinesi che, tranne poche eccezioni, i libanesi vorrebbero veder tornare a casa al più presto e che sono vittime di discriminazioni, abusi e persino atti di violenza. Senza dimenticare che sul Libano domina sempre lo spettro di un nuovo conflitto tra Israele ed Hezbollah che, minaccia Tel Aviv, avrà conseguenza devastanti per tutto il Paese dei Cedri.
FONTE: Michele Giorgio, IL MANIFESTO[1]
photo: Kremlin.ru [CC BY 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/4.0)], via Wikimedia Commons
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