Libano al voto, nelle urne il declino di Saad Hariri

Libano al voto, nelle urne il declino di Saad Hariri

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 Sullo sfondo ci sono i profughi palestinesi e siriani e una nuova possibile guerra tra Israele e movimento sciita

Intervistato da un giornale internazionale, Yusef Sanjar, ha ‎raccontato che l’ultima volta che si è votato per il rinnovo ‎del Parlamento libanese, quasi dieci anni fa, era tornato a ‎casa da Riyadh grazie a un biglietto aereo pagato dalla sua ‎azienda, il colosso delle costruzioni Saudi Oger ‎Construction Company, di proprietà degli Hariri, la famiglia ‎libanese sunnita più potente e stretta alleata dei sauditi. E a ‎Sidone, la sua città, fece campagna a favore di Saad Hariri, ‎che aveva preso il posto del padre Rafiq (assassinato nel ‎‎2005). La Saudi Oger ora è a pezzi, crollata sotto i colpi del ‎mercato e dei cambiamenti avvenuti ai vertici della ‎monarchia sunnita che ha scaricato Saad Hariri perché ‎troppo “debole” verso gli avversari sciiti del movimento ‎Hezbollah alleato dell’Iran. Yusef Sinjar, come altre migliaia ‎di libanesi alle dipendenze di Saad Hariri e della zia Bahiya, ‎ha perduto tutto. La sua professonalità vale ben poco in un ‎Paese dove la disoccupazione ufficiale è al 20% e quella ‎reale è almeno al 30% e dove gli stipendi sono molto più ‎bassi rispetto a quanto percepiva in Arabia saudita. Era un ‎benestante ora vive quasi in povertà. Gli Hariri l’hanno ‎abbandonato. ‎‎«A queste elezioni certo non voterò per Saad ‎Hariri e il suo partito Mustaqbal (Futuro) e come me ‎faranno tanti altri abitanti di Sidone», ha spiegato ‎all’intervistatore.

‎ Le elezioni parlamentari che si terranno oggi in Libano, ‎nonostante il nuovo sistema elettorale sia passato dal ‎maggioritario al proporzionale, non modificheranno troppo i ‎rapporti di forza tra i due schieramenti avversi: il fronte 8 ‎Marzo filo-siriano guidato da Hezbollah e il fronte 14 marzo ‎filo-occidentale capeggiato da Mustaqbal. Sanciranno ‎comunque la decadenza della famiglia Hariri anche in ‎politica, oltre che in economia. Saad Hariri, premier ‎uscente, con ogni probabilità, grazie al “Patto Nazionale” ‎del 1943 che assegna la carica di primo ministro ai sunniti, ‎riuscirà a farsi riconfermare a capo del governo. Il suo ‎prestigio è al punto più basso anche per essere stato ‎costretto, all’inizio di novembre, a dare le dimissioni, ‎annunciate da Riyadh e sotto la pressione (di fatto era agli ‎arresti domiciliari) dei regnanti sauditi, e a dichiarare guerra ‎aperta a Hezbollah e all’Iran. In Libano tutti sanno che ‎Hariri è riuscito a tornare a casa grazie all’intervento sui ‎Saud del presidente francese Macron e non dimenticano ‎che una volta a Beirut ha subito ritirato le dimissioni tra le ‎battutine feroci di amici e avversari sulla sua credibilità. ‎Mustaqbal, che ora ha 26 dei 128 seggi del parlamento ‎uscirà fortemente ridimensionato dal voto e Hariri per ‎tenere a bada gli oppositori interni al blocco sunnita – in ‎particolare quelli che fanno riferimento al generale Ashraf ‎Rifi – sarà ancora più dipendente da un accordo proprio ‎con i nemici di Hezbollah, che ha provato a combattere in ‎ogni modo senza successo per 13 anni. Un accordo a ‎condizioni ben più sfavorevoli rispetto a quello che nel ‎dicembre 2016, chiudendo una lunga paralisi istituzionale, ‎gli riconsegnò la carica di primo ministro in cambio della ‎nomina a capo dello stato del cristiano Michel Aoun, alleato ‎di Hezbollah. ‎

‎ Non sorprende che nella campagna elettorale sia passato ‎in secondo piano l’appello che Hariri lanciò al rientro in ‎Libano per la ‎‎«dissociazione‎‎» dei libanesi dai conflitti nel ‎resto della regione, rivolto a Hezbollah che combatte con ‎migliaia di uomini a sostegno dell’esercito siriano. ‎‎«Anche ‎la questione del disarmo di Hezbollah chiesto per anni da ‎Hariri e dai suoi alleati è stata affrontata marginalmente ‎durante la campagna elettorale, di fatto è stata ‎accantonata», ha scritto Joseph Bahout, del Carnegie ‎Middle East center.‎ Hariri in declino spinge verso il basso ‎anche i suoi alleati, i leader delle Forze Libanesi, Samir ‎Geagea, e della Falange, Sami Gemayel, entrambi di destra. ‎Stabile ma meno influente emergerà dal voto il Partito ‎socialista progressista del leader druso Walid Junblatt.‎

‎ Il nuovo sistema di voto dovrebbe a favorire Hezbollah ‎e le altre formazioni del fronte 8 Marzo – Corrente dei ‎patrioti liberi di Michel Aoun, la principale formazione ‎armena Tashnaq, e l’altro partito sciita, Amal, guidato come ‎sempre dal presidente del parlamento Nabih Berri – ‎nonostante le 15 circoscrizioni elettorali in cui è stato ‎suddiviso il Libano siano abbastanza omogenee dal punto di ‎vista confessionale e, pertanto, non destinate a produrre alle ‎urne sconvolgimenti radicali. A dispetto delle previsioni ‎fatte qualche mese fa, conterà relativamente poco il voto ‎dei libanesi all’estero (è la prima volta che accade) sul totale ‎dei 3,7 milioni di elettori. Il movimento sciita e i suoi alleati ‎perciò potrebbero riconquistare la maggioranza dei seggi del ‎Parlamento per la prima volta dal 2005. Ma non cantano ‎vittoria in anticipo, anzi Hezbollah è stato cauto e ha ‎cercato di tenere la Siria fuori dalla sua campagna elettorale ‎per puntare su temi generali di interesse di tutti i libanesi: la ‎disoccupazione, la cronica corruzione della classe politica e ‎degli amministratori locali, il debito pubblico al 150% del ‎Pil che schiaccia il Paese, la pessima distribuzione di acqua ‎ed elettricità e la lotta alla povertà. A suo favore gioca ‎l’immagine di nemico del jihadismo che ha combattuto ai ‎confini tra Libano e Siria garantendosi le simpatie anche di ‎una porzione di libanesi cristiani. Hezbollah e i suoi alleati ‎dovrebbero assicurarsi 40-41 seggi nel nuovo Parlamento, ‎grazie anche a voti che arriveranno da sunniti filo-siriani ‎schierati contro Hariri. ‎

‎ Sullo sfondo delle elezioni ci sono 1,5 milioni di rifugiati ‎siriani e il mezzo milione circa di profughi palestinesi che, ‎tranne poche eccezioni, i libanesi vorrebbero veder tornare ‎a casa al più presto e che sono vittime di discriminazioni, ‎abusi e persino atti di violenza. Senza dimenticare che sul ‎Libano domina sempre lo spettro di un nuovo conflitto tra ‎Israele ed Hezbollah che, minaccia Tel Aviv, avrà ‎conseguenza devastanti per tutto il Paese dei Cedri.‎

FONTE: Michele Giorgio, IL MANIFESTO

photo: Kremlin.ru [CC BY 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/4.0)], via Wikimedia Commons



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C’è una domanda: “Che cosa faremmo noi se fossimo nei panni di governanti o responsabili internazionali di fronte al massacro perpetrato giorno dietro giorno, da undici mesi, in Siria?” C’è un altro modo di formulare la domanda: “Che cosa faremmo, che cosa possiamo fare noi, nei nostri panni?” Le due domande sono legate.

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