by Massimo Gaggi | 7 Maggio 2018 9:56
La settimana cruciale della questione iraniana, con Donald Trump che alla scadenza del 12 maggio potrebbe decidere di non rispettare più l’accordo nucleare siglato nel 2015 con Teheran (facendolo, di fatto, decadere) si apre con una durissima sortita del presidente della repubblica islamica, il moderato Hassan Rouhani: «Se gli Usa lasceranno l’accordo nucleare se ne pentiranno amaramente. Il loro sarà un rimpianto di portata storica». E poi: niente revisioni o rinegoziazioni dell’accordo. O si va avati con quello attuale, o l’Iran si considererà con le mani libere. «Abbiamo piani per far fronte a qualsiasi scelta, come ci difenderemo è affare nostro», assicura il presidente che fu, insieme a Obama, l’architetto dell’intesa che ora il presidente Trump, spinto dall’israeliano Benjamin Netanyahu, sembra deciso a denunciare.
Con la sua sortita insolitamente sbrigativa e roboante (un discorso pronunciato in una piazza di provincia del Khorasan e trasmesso in diretta tv), Rouhani manda un avvertimento a Washington e agli europei che sperano di salvare l’accordo anche in caso di ripristino delle sanzioni americane. Ma, in realtà, parla anche — e forse soprattutto — agli iraniani: inviso agli ultraconservatori che non volevano l’accordo sul nucleare, il presidente è ora atteso al varco dai pasdaran e dalla destra religiosa. Rouhani già deve affrontare un diffuso malcontento all’interno per una situazione economica che non migliora nonostante il parziale smantellamento delle sanzioni.
Fin qui la Guida Suprema, Ali Khamenei, benché pure lui scettico sull’accordo del 2015, ha sempre appoggiato il presidente. Ma potrebbe smettere di proteggerlo dagli attacchi degli oltranzisti in caso di una sua denuncia. Rouhani fa la voce grossa (ieri ha anche definito i due Stati schierati con Trump per la cancellazione del patto, l’Arabia Saudita e Israele, «un piccolo Paese e un regime») anche per convincere i suoi cittadini che la situazione è sotto controllo.
In realtà, però, una denuncia dell’intesa del 2015 e una ripresa del programma nucleare iraniano creerebbero condizioni di tensione estrema in Medio Oriente e nel Golfo. Col rischio, addirittura, di una nuova guerra, come ha denunciato nei giorni scorsi il Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. È per questo che — mentre Netanyahu è tornato ieri a soffiare sul fuoco ribadendo le sue accuse all’Iran (ha dimostrato che Teheran ha mentito in passato sulle sue reali intenzioni nucleari, ma non che abbia violato gli accordi del 2015) e sostenendo che, senza una revisione delle intese, gli ayatollah avranno l’atomica in breve tempo — va avanti il lavoro sotterraneo della diplomazia europea (e anche di John Kerry negli Usa, come riferiamo a parte) per cercare di convincere Trump a non compiere gesti estremi.
Ieri è arrivato a Washington il ministro degli Esteri britannico Boris Johnson, uno dei grandi sostenitori dell’accordo nucleare. Vedrà il vicepresidente Mike Pence, il consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton e i leader del Congresso. Ma Trump ha giocato d’anticipo chiamando al telefono la premier britannica, Theresa May, alla quale ha ribadito la sua intenzione di impedire a ogni costo che l’Iran si doti di armi nucleari.
FONTE: Massimo Gaggi, CORRIERE DELLA SERA[1]
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