by il manifesto | 4 Maggio 2018 9:56
Chi vede nel loro lavoro un pericolo pur di farli tacere, impedirgli di indagare e denunciare malaffare e corruzione è pronto a tutto: metterli in prigione, torturarli, ma anche rapirli. Senza esitare ad uccidere, se necessario, facendoli sparire per sempre nel nulla. Solo negli ultimi cinque anni, dal 2012 al 2017, sono stati 530 i giornalisti uccisi nel mondo, in un’escalation continua di violenze. La denuncia arriva dall’Unesco che ieri, in occasione della 25esima giornata per la libertà di stampa, ha pubblicato due report in cui vengono riassunte le condizioni spesso proibitive in cui in molte parti del mondo chi fa informazione è costretto a lavorare. Quattro i fattori dei media presi in esame: la libertà, l’indipendenza, la sicurezza e la pluralità, ponendo l’accento anche sulla facilità o meno di poter accedere alle informazioni. E le conclusioni a cui giunge l’Unesco sono preoccupanti: «Il giornalismo è sotto attacco», denuncia infatti l’organismo dell’Onu, e se il pubblico che ha accesso alle informazioni è oggi più ampio rispetto al passato, sono cresciute anche le occasioni per diffondere odio e false notizie, elementi che portano con loro la diminuzione della libertà di espressione e di conseguenza della libertà di stampa e che spesso – denuncia sempre l’Unesco – finiscono per avere come esito l’omicidio di chi si batte per la ricerca della verità.
Certo non mancano anche dati positivi come il fatto che quasi la metà della popolazione mondiale (il 48% nel 2017 contro il 34% nel 2012) può accedere ad internet, mentre sempre più Paesi hanno adottato leggi sulla libertà di stampa (passando dai 90 del 2012 ai 112 nel 2016) ma parallelamente sono aumentati anche gli attacchi dei governi contro i giornalisti che controllano il loro operato. Attacchi che si concretizzano anche nella chiusura di siti internet (sono stati 18 nel 2015 e 56 nel 2016). Oppure in campagne contro giornalisti sgraditi, come accaduto in Italia da parte del M5S che più volte ha reso noti i nomi dei professionisti sgraditi al movimento.
Una delle zone più pericolose al mondo per i giornalisti è l’America latina. L’Ipi, l’International press institute, denuncia come maggiormente a rischio sia chi svolge inchieste sul narcotraffico e la corruzione politica, ma anche l’alto grado di impunità del quale gode chi uccide un giornalista.
L’Unicef e il Guillermo Cano Word press Freedom Prize (dedicato al giornalista colombiano ucciso nel 1986) hanno deciso quest’anno di premiare il fotoreporter egiziano Mahmoud Abu Zeid, in carcere in Egitto da cinque anni con accuse pesantissime soltanto per aver svolto il proprio lavoro.
FONTE: IL MANIFESTO[1]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2018/05/98625/
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