by Dimitri Bettoni | 25 Aprile 2018 10:02
ISTANBUL. Giunge alle battute finali la vicenda giudiziaria del quotidiano Cumhuriyet, una delle più importanti della storia della Turchia. Ieri è cominciata l’ultima udienza di primo grado che vede coinvolti 18 tra giornalisti e membri del direttivo della fondazione che sostiene lo storico quotidiano.
In questo processo si intrecciano tutti gli eventi che hanno scosso il paese in questi ultimi tre anni: il crollo del processo di pace turco-curdo, il traffico di armi dei Servizi turchi verso la Siria, il tentato golpe della setta dell’imam Gulen, la repressione sui media e sulla società civile. I 18 imputati rischiano condanne pesanti: tra i 7 e i 15 anni la richiesta della procura, anche se l’avvocato Tora Pekin prima dell’udienza ha dichiarato: «Ci aspettiamo condanne tra i 3 e i 6 anni, in linea con altri processi.
Ma nessuno dei miei assistiti crede in un’assoluzione». Ha poi spiegato che quasi sicuramente si andrà in appello, «ci andremo noi in caso di condanne, lo farà la procura nel caso di assoluzioni». E annuncia un altro ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, anche se sottolinea: «La corte ha finora agito con criteri politici, per evitare di urtare Ankara. Ha fallito nei suoi scopi, credo che il pubblico europeo debba esserne cosciente».
L’impianto accusatorio del processo Cumhuriyet è costruito principalmente sulle attività giornalistiche della redazione, accusata di essere il megafono del golpe. Suscitano impressione le parole del procuratore quando formalizza il capo d’accusa finale: «Sostegno e favoreggiamento alle organizzazioni terroristiche senza esserne membri, attraverso notizie, articoli, dichiarazioni pubblicate sul giornale o, per dirla in breve, attraverso le attività di pubblicazione nel loro complesso».
Un processo a uno degli ultimi baluardi di giornalismo non ancora controllati dall’ingombrante esecutivo del presidente Erdogan: dopo la vendita del gruppo Dogan alla holding Demiroren, si stima che il 97% dei media sia sotto il controllo del governo.
L’altra grande prova di colpevolezza – il possesso dell’applicazione per cellulari Bylock utilizzata dalla rete di Gulen per le proprie comunicazioni criptate – si è sfaldata in uno dei più grandi scandali tecnologici-giudiziari dei tempi recenti. Il lavoro di esperti digitali tra cui Tuncay Besikci, chiamato in causa proprio da Cumhuriyet, ha smascherato l’inganno Bylock.
Dopo il tentato golpe i procuratori hanno scoperto l’esistenza di Bylock e, pur non riuscendo a decifrare i contenuti criptati, hanno considerato le connessioni dell’applicazione una inconfutabile prova di affiliazione alla confraternita golpista. Ma chi ha creato Bylock aveva sviluppato anche una serie di altre applicazioni per l’ascolto della musica o per la preghiera, sotto il brand Mor Beyin, diffuse con centinaia di migliaia di download. All’interno, i creatori avevano nascosto una riga di codice che generava, all’insaputa dell’utente, connessioni tra il cellulare e il server di Bylock. Per mesi i tribunali hanno incarcerato decine di migliaia di persone inconsapevoli.
Una trappola in cui lo stato turco, preda della follia repressiva, è caduto in pieno. Lo racconta lo stesso Besikci quando dice che le procure avevano già da mesi il sentore che qualcosa non quadrava, eppure «dopo il golpe, con Bylock unica prova tangibile, i procuratori erano troppo impauriti per ammettere che il teorema era compromesso e se ne stettero zitti».
FONTE: Dimitri Bettoni, IL MANIFESTO[1]
photo: By Hilmi Hacaloğlu (Cumhuriyet Gazetesi Operasyonuna Tepki Sürüyor) [Public domain], via Wikimedia Commons
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