Israele rivendica il bombardamento aereo contro l’Iran, «via libera» a Trump

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Il centro ricerche di Barzeh ispezionato a novembre: per l’Opac non c’era traccia di attività chimiche

Ieri l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) avrebbe dovuto iniziare le proprie indagini a Ghouta est, nella città di Douma, dove il 7 aprile secondo il fronte anti-Assad il governo siriano avrebbe compiuto un attacco con armi chimiche.

Il team di esperti, arrivato giovedì su invito governativo, ieri sarebbe dovuto entrare nel sobborgo per analisi biometriche, raccolta di campioni e interviste ai feriti. Ma è ancora fuori, scatenando il fuoco incrociato di accuse tra Washington e Mosca.

La delegazione britannica dell’Opac ha denunciato in mattinata il mancato ingresso, mentre l’inviato Usa dell’Organizzazione dava le indagini per inutili perché le prove «potrebbero essere state compromesse» dai russi. Risponde la Russia: la missione inizierà domani. Il vice ministro degli esteri Ryabkov aveva attribuito il ritardo «alla mancanza di approvazione della missione da parte del Dipartimento alla sicurezza del segretariato Onu» e affermato che «la rapida soluzione del problema è impedita dalle conseguenze dell’azione militare illegale» compiuta nella notte tra venerdì e sabato da Usa, Francia e Regno unito.

Intervengono anche il ministro degli esteri Lavrov, che in un’intervista alla Bbc garantisce «che la Russia non ha manomesso il sito», e il vice ministro degli esteri siriano al-Mokdad che riporta di incontri tra la delegazione dell’Opac e il governo sulle modalità di cooperazione a Ghouta est. Modalità a cui l’Opac ha già ricorso in passato nel monitoraggio delle attività chimiche del governo.

A tal proposito vanno ricordati i due rapporti dell’Organizzazione, del febbraio e del novembre 2017: a seguito di ispezioni nel centro ricerche di Barzeh (distrutto dai raid Usa) l’Opac certificava l’assenza «di attività in contrasto con gli obblighi derivanti dalla Convenzione sulle armi chimiche». A Barzeh non si stavano svolgendo ricerche o producendo gas.

Dall’altro lato del confine sud è Israele a tornare in scena. Dopo l’esplosione che domenica ha provocato 20 morti in un sito militare di Aleppo, usato dal movimento sciita libanese Hezbollah e dall’esercito iraniano, che negano però un’azione esterna, un alto funzionario delle forze armate israeliane ha ammesso ieri con il New York Times la responsabilità di Tel Aviv nel bombardamento della base siriana T4 e l’uccisione di 14 soldati, di cui 7 pasdaran, il 9 aprile.

L’insoddisfazione israeliana per i 103 missili lanciati su Damasco e Homs, azione considerata troppo soft, è data dal ministro della Difesa Lieberman: «Manterremo totale libertà di azione e non accetteremo alcuna limitazione quando si tratta della difesa dei nostri interessi di sicurezza», ha detto al sito web Walla. «Non vogliamo provocare i russi, abbiamo una linea di comunicazione aperta», ha aggiunto facendo però capire che lo Stato ebraico si autoattribuisce piena autonomia, che a Mosca piaccia o no.

Israele è consapevole del potere esercitato sugli Stati che hanno compiuto l’ attacco e anche delle contraddizioni interne, pericolose per le mire anti-iraniane di Tel Aviv. Di nuove ne sono esplose ieri, provocate ancora una volta dalla volatilità della politica mediorientale trumpiana. Il presidente Trump ha smentito l’alleato francese sul mantenimento delle truppe in Siria.

Ma ha smentito anche se stesso: domenica all’Onu l’ambasciatrice Haley aveva parlato della necessità di non ritirare i marines, per tre ragioni: evitare che le armi chimiche siano un rischio per gli interessi Usa, sconfiggere l’Isis e monitorare le attività iraniane in Siria.

Accanto all’intervento di Haley (che aveva annunciato nuove sanzioni contro compagnie russe legate ad Assad, poi «congelate» in serata da Trump), nelle stesse ore il presidente francese Macron raccontava alla Bfm Tv del ruolo svolto nel convincere Trump a non andarsene dal paese: «Dieci giorni fa il presidente Trump voleva ritirare gli Usa dalla Siria. L’ho convinto a restare».

Poche ore e la smentita, direttamente dalla Casa bianca. La portavoce Sanders ha fatto sapere che i piani non cambiano: «Il presidente è stato chiaro: vuole le forze Usa a casa prima possibile». O i due alleati hanno scarse capacità di comunicazione interna, o la smentita di Trump altro non è che la preparazione del terreno a un eventuale intervento francese o britannico su suolo siriano.

Forse fantascienza, forse no. Sanders ha aggiunto infatti un tassello: «Ci aspettiamo che i nostri alleati assumano maggiori responsabilità, sia militari che finanziarie, per garantire la sicurezza della regione».

FONTE: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO



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