by Antonio Sciotto | 13 Aprile 2018 9:46
Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti: «Abbiamo fatto bene a inserire la figura del ciclofattorino nell’ultimo contratto della logistica: si tratta chiaramente di un’attività subordinata»
I sei riders di Foodora non si arrendono e annunciano la possibilità di ricorrere in appello contro la sentenza del Tribunale di Torino che ha respinto la loro richiesta di reintegro. Erano stati licenziati nel 2016 – anzi semplicemente sloggati dalla app (nella gig economy corrisponde all’essere messi alla porta) – dopo una protesta contro le condizioni di sfruttamento nella multinazionale tedesca del food delivery. E se i sindacati della logistica rivendicano l’inquadramento nel lavoro subordinato – come da ultimo contratto firmato – i partiti si dividono sulle tutele da fornire ai nuovi operai in bici.
IL PD, DA UN LATO, CON il reggente Maurizio Martina sottolinea la natura autonoma di questo tipo di attività, e invoca «una protezione universale dei lavori, con uno statuto dei lavoratori autonomi: strumenti frutto di una politica nuova e di un coinvolgimento dei sindacati e degli stessi fornitori dei servizi». Diverso il punto di vista dei Cinquestelle, che insistono piuttosto sul salario minimo.
«Il caso Foodora fa parte del declino del mercato del lavoro, specialmente per queste categorie su piattaforme caratterizzate da una flessibilità estrema», afferma Pasquale Tridico, ministro in pectore del Lavoro indicato dal Movimento 5 Stelle. «Soprattutto per questo tipo di lavoratori ci vorrebbe un salario minimo, è questione di dignità – aggiunge Tridico – Si tratta di lavoratori non coperti dalla contrattazione minima, coperti da contratti pirata». Il caso è molto negativo».
IN ATTESA DI UN GOVERNO, e di un Parlamento che funzioni finalmente a regime, ci si può sbizzarrire nel proporre soluzioni, ma i sei riders sono rimasti a piedi, mentre tutti i loro colleghi, da Milano a Napoli, da Torino a Roma, continuano a lavorare in condizioni di estrema precarietà. Con «paghe che dopo la sentenza rischiano di abbassarsi ulteriormente», denunciava sconsolato Andrea Ruta, 27 anni, uno dei giovani ciclofattorini intervistato dal Corriere della sera in uscita dal Tribunale subito dopo aver ricevuto il verdetto.
Intanto il sindacato torna a chiedere l’inquadramento di queste figure nel lavoro dipendente. Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti spiegano di «aver fatto bene a prevedere e inserire, lo scorso dicembre, la figura del rider nel rinnovo del contratto collettivo nazionale della logistica, trasporto merci e spedizione». «Per noi è evidente – proseguono le tre sigle – che i rider sono una figura sempre più importante nel settore, per cui devono avere certezze retributive, di organizzazione del lavoro e di salute e sicurezza. Da ciò deriva anche che dovranno essere riconosciuti come lavoratori subordinati, sebbene siano una figura innovativa e con modalità e strumenti di lavoro non tradizionali».
SFIDA SICURAMENTE ancora aperta, e che la sentenza di mercoledì non ha certo facilitato. L’Usb, dal canto suo, punta il dito contro la legislazione del lavoro degli ultimi venti anni – in particolare il Jobs Act – e non risparmia critiche alla magistratura del lavoro.
«Il lavoratore perde sempre: ieri la sentenza Foodora, l’altroieri quelle su Ikea e Almaviva – nota l’avvocato Carlo Guglielmi, del Forum Diritti Lavoro afferente a Usb – L’Italia è diventata ultima in Europa quanto a legislazione di protezione grazie anche alla crisi della magistratura del lavoro, che ha abdicato al proprio ruolo. Nel periodo berlusconiano si è generalmente opposta con le proprie sentenze allo stravolgimento dei diritti, poi si è totalmente arresa: il periodo renziano e l’introduzione del Jobs Act hanno visto la resa completa sul piano di difesa del lavoro».
«FOODORA? È CAPORALATO 4.0. Spiace che non ci sia stata questa valutazione. Dovremo prepararci a lotte 4.0», scrive su Twitter il numero uno della Uil Carmelo Barbagallo. E il segretario confederale Guglielmo Loy aggiunge: «Non si può sostenere che i rider siano “autonomi” per alcuni aspetti e poi “licenziabili” se non seguono le direttive dell’azienda».
FONTE: Antonio Sciotto, IL MANIFESTO[1]
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