by Tommaso Di Francesco | 10 Aprile 2018 10:58
Bisogna sottolineare tre elementi: i due cosiddetti attacchi precedenti; l’attuale crisi di legittimità di Trump, lo scatenatore di dazi sotto tiro ancora per il Russiagate; il ruolo di Israele mentre gioca con prepotenza criminale e altrettanta impunità al tiro al piccione con le vite dei civili palestinesi a Gaza
La guerra in Siria non deve finire. Sembra questo l’assunto degli avvenimenti precipitosi in corso e sotto l’influsso dei racconti massmediatici che sparano la certezza, tutt’altro che verificata da fonti indipendenti, di un bombardamento al «gas nervino» o al «cloro», con cento vittime e gli occhi dei bambini – vivi fortunatamente – sbattuti in prima pagina.
Ci risiamo. Temiamo che ancora una volta la verità torni ad essere la prima vittima della guerra. Soprattutto di quella siriana, una guerra per procura, che ha visto insieme a 400mila vittime e un Paese ridotto in rovine, i mille coinvolgimenti dell’Occidente, delle potenze regionali a cominciare dalla Turchia baluardo sud della Nato, il ruolo dei jihadisti dell’Isis, di al-Qaeda e galassie collegate, che se fanno attentati in Europa e negli States sono «terroristi», mentre in Siria sono «opposizione». La guerra è anche di parole.
Tra i dubbi che emergono, c’è un fatto concreto, un déjà vu: il raid dei jet israeliani inviati dall’«umanitario» Netanyahu a colpire una base aerea siriana, con altre vittime, civili e non. L’ evento getta piena luce su una tragedia alimentata all’origine per destabilizzare la Siria così come con «successo» era accaduto in Libia.
E che, comunque la si definisca, vede le vite dei civili, donne, anziani, bambini alla mercé dei fronti opposti. Perché? Perché permette di comprendere quel che davvero sta accadendo.
La guerra, di fatto vinta da Assad e dal fronte che lo sostiene, Russia e Iran e al quale dopo il vertice di Ankara si è aggiunta l’atlantica Turchia, non deve né può finire con il risultato destabilizzante della sconfitta dell’asse sunnita a guida dell’Arabia saudita, l’asse avviato dalla coalizione degli Amici della Siria nel 2012-2013, suggellato pochi mesi fa da Trump con la fornitura di 100miliardi di armi al regime dei Saud che ora vanno in viaggio d’affari, dall’Egitto di al-Sisi alla Gran Bretagna (dove la narrazione del «gas Sarin in Siria che si collega al caso Skripal», viene ribadita da Karen Pierce, ambasciatrice di Londra all’Onu).
Così, proprio mentre il governo di Damasco ha di fatto riconquistato più di due terzi del Paese, lavora alla ricostruzione di molte città a partire dalla meraviglia in cenere di Aleppo, e mentre tratta con gli ultimi jihadisti di Ghouta perché si ritirino verso la roccaforte integralista residua di Idlib, ecco che scatta l’operazione «gas Sarin».
Così subito arrivano i «caschi bianchi» – esaltati in occidente quanto patrocinati dall’Arabia saudita e presenti solo nelle zone controllate da Al Qaeda (avete mai visto «caschi bianchi» soccorrere i civili delle stragi a Damasco provocate dai colpi partiti dalle zone controllate da al-Qaeda?).
È una «operazione» attesa, dopo le precedenti del 2013 e del 2017. E che per essere veridica deve però dimostrare una tesi: che Assad giochi al suicidio politico mentre vince e in presenza del controllo militare russo sotto osservazione Onu e del mondo intero. Assad però, che non è una mammoletta e per restare in sella ha certo fatto scempio di una parte del suo popolo, tutto è meno che un suicida politico.
Ora Damasco e la Russia respingono ogni accusa. E allora, chi potrebbe essere responsabile del presunto attacco al gas nervino o al cloro? Per rispondere bisogna sottolineare tre elementi: i due cosiddetti attacchi precedenti; l’attuale crisi di legittimità di Trump, lo scatenatore di dazi sotto tiro ancora per il Russiagate; il ruolo di Israele mentre gioca con prepotenza criminale e altrettanta impunità al tiro al piccione con le vite dei civili palestinesi a Gaza.
Dunque i precedenti. Il 21 agosto 2013 sempre a Ghouta secondo il più importante giornalista d’inchiesta al mondo, Seymour Hersh. Premio Pulitzer per il reportage sul massacro di My Lai in Vietnam quando nel marzo 1968 le forze militari americane massacrarono a freddo 109 civili e responsabile delle rivelazioni sulla barbarie in Iraq del carcere americano di Abu Ghraib.
L’attacco, da fonti dirette raccolte da Hersh sia in Siria che tra le alte sfere dell’intelligence Usa, non fu opera del regime di Assad ma dei ribelli jihadisti con il sostegno di Erdogan. Per una operazione mirata a far entrare in guerra subito gli Stati uniti che con Obama avevano intimato che l’uso di armi chimiche avrebbe oltrepassato «la linea rossa».
L’intervento fu evitato all’ultimo momento per la mediazione della Russia, di papa Bergoglio che invitò il mondo alla preghiera contro l’allargamento del conflitto, e dell’Onu che a fine 2014 dopo una missione di bonifica delle armi chimiche, decretò con l’accordo di tutti che in Siria non ce n’erano più. Il secondo precedente, del 4 aprile 2017, solo un anno fa a Khan Sheikhoun, con 72 vittime civili per effetto di una bomba sganciata dall’aviazione siriana che, per i Paesi occidentali era «al gas Sarin»; e al quale seguì però, con elogio bipartisan di repubblicani e democratici Usa, e di mezzo mondo, il lancio di 59 missili Tomahawak su una base aerea siriana usata anche dai russi.
La nuova indagine di Seymour Hersh (apparsa sulla Welt am Sonntag) ha dimostrato, ascoltando fonti dell’establishment dell’intelligence Usa, che la bomba non poteva essere caricata a gas nervino perché esisteva una accordo di «deconfliction» tra servizi segreti americani e russi, proprio per evitare scontri diretti non voluti, secondo il quale i russi avevano fornito in precedenza i dettagli del bombardamento.
«Non era un attacco con armi chimiche – rivelò a Hersh un esperto consigliere dell’intelligence statunitense – È una favoletta. Se fosse davvero così, tutte le persone coinvolte nel trasferire, caricare e armare l’arma … indosserebbero indumenti protettivi Hazmat in caso di perdite. Ci sarebbero ben poche possibilità di sopravvivenza senza questo vestiario».
Qual era la verità: che la micidiale bomba aveva colpito deflagrando un deposito di armi e prodotti chimici, molti dei quali arrivati ai jihadisti proprio grazie alle forniture alla cosiddetta «opposizione siriana», il cui sostegno Usa è stato un fallimento per dichiarata ammissione della Cia. E, accusa Hersh: forniture arrivate per esplicita volontà dell’allora segretario di Stato Hillary Clinton.
Veniamo al ruolo di Trump, sotto accusa da quasi tutta la stampa Usa – fa eccezione il Boston Globe – e dal senatore McCain (“eroe” del Vietnam perché buttava napalm e agente Orange sui villaggi contadini?) – per avere annunciato il ritiro americano dalla Siria. Ora il populista Trump si prepara a bombardare, visto che ottiene più consenso se da isolazionista sposa il militarismo della «guerra umanitaria» che è tanto «di sinistra». Con effetti stavolta a dir poco controproducenti: la terza guerra mondiale non più «a pezzetti».
Ultima considerazione: che vuole Israele? Impunita per le stragi di civili a Gaza, punta alla provocazione con nuovi raid in Siria. Il primo obiettivo è aprire il fronte Iran; poi partecipare alla spartizione del Paese del quale occupa da tempo il Golan; e ora soccorrere Trump diventando la sua aviazione, anche per ripagarlo della sua criminale decisione di spostare a maggio l’ambasciata Usa a Gerusalemme.
Insomma, vale la pena credere al giornalismo vero, d’inchiesta. Che non accettare le versioni mainstream di comodo di chi è il primo responsabile della guerra di turno.
FONTE: Tommaso Di Francesco, IL MANIFESTO[1]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2018/04/98103/
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