Lula e Marielle, ultimo atto del ciclo progressista. O c’è una riscossa in vista?

Lula e Marielle, ultimo atto del ciclo progressista. O c’è una riscossa in vista?

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Le due vicende fanno riflettere che a parlare di lotta all’impunità sia la cupola di quelle forze armate che mai hanno voluto assumersi la responsabilità storica della dittatura. Ma quella che può sembrare una vittoria di Temer e delle destre evidenzia piuttosto il loro fallimento

La vicenda di Lula incarna la fine definitiva del ciclo progressista in America Latina, o invece fornisce elementi di speranza per una futura riscossa – a condizione di prendere atto non solo dei progressi, ma anche dei grandi errori compiuti in passato? Alcuni analisti brasiliani ritengono che la chiusura del ciclo progressista in Brasile si sia consumata in due fasi: l’impeachment di Dilma prima, e poi l’impeachment preventivo di Lula. Tra queste due tappe il regime di Temer non è stato però capace di tener fede alle promesse fatte, come dimostrano i numeri della sua popolarità (ben sotto il 5%) e di altri pre-candidati alla Presidenza che non raggiungono il 10% a fronte del 57% di Lula. Quella che sembra oggi una vittoria per Temer e le sue oligarchie di riferimento è in realtà prova del loro fallimento, da nascondere con un’abile strategia di «depoliticizzazione» della contesa elettorale, attraverso una contronarrazione etico-securitaria che in realtà è classista e razzista.

Ecco così la spettacolarizzazione del caso Lula per mostrare mediaticamente la propria forza e la determinazione nel lottare «contro l’impunità» in un processo svolto violando ogni principio di diritto come spiegato in queste pagine da Luigi Ferrajoli. Ed ecco la spettacolarizzazione della guerra al crimine con la militarizzazione di Rio de Janeiro. Elemento nuovo è il ritorno sulla scena – dopo 30 anni – dei militari accanto alla nuova destra, dapprima con la presenza sul campo nelle favelas di Rio, e poi nell’agone politico vero e proprio. accanto alle forze tradizionalmente alleate di Temer (catene televisive quali Rede Globo, il grande latifondo, dei conglomerati industriali, di Gol o Electrobras).

Fanno fede le dichiarazioni del comandante dell’esercito Eduardo Villas Boas («guardiano dell’etica» secondo Temer) che in un tweet rispose al generale in pensione Schroeder Lessa, confermando l’impegno affinché venissero fatti «tutti gli sforzi necessari per proibire la corruzione e l’impunità». Schroeder Lessa aveva paventato un intervento militare qualora il Tribunale Supremo avesse accolto l’istanza di Habeas Corpus presentata da Lula, per evitare una lotta “fratricida”, scatenata dallo stesso ex-presidente. Fa riflettere il fatto che a parlare di lotta all’impunità sia la cupola di quelle forze armate che mai hanno voluto assumersi la responsabilità storica delle dittature e dei conflitti scatenati contro le lotte per la riforma agraria. E più di recente per le operazioni condotte nella «guerra al crimine» nelle favelas di Rio, denunciate da Marielle Franco, uccisa assieme al suo autista assai probabilmente ad opera di persone collegate alla polizia militare.

Esiste un filo rosso che lega l’omicidio di Marielle alla vicenda di Lula, e non solo. Come denunciato durante la sua recente visita in Italia da Francinara Baré, prima donna indigena a capo della Coiab (Confederazione delle organizzazioni dell’Amazzonia brasiliana), il governo Temer ha smantellato ogni tutela ambientale, sta praticando una politica genocida verso i popoli indigeni (è recente la notizia dell’intenzione di chiudere la Funai – ente pubblico dedicato ai popoli indigeni) e svendendo il patrimonio naturale e le risorse dell’Amazzonia. L’espansione della frontiera estrattivista porta con sé una scia di sangue. Il Brasile assieme a Colombia, Messico e Filippine è il paese con il più alto numero di attivisti dei diritti umani uccisi nel 2017, principalmente difensori della terra e ambientalisti anche se la violenza e l’odio oggi rivolti contro Lula vengono vomitati quotidianamente da predicatori evangelici, impresari militari e media contro chi lotta per i diritti Glbqti e chi è considerato “diverso”, per classe o colore della pelle. Proprio come le moltitudini scese in piazza accanto al loro ex-presidente, reo di aver tentato di restituire loro dignità e di farle uscire dalla morsa della miseria. O quelle che hanno protestato contro l’esecuzione di Marielle Franco, lesbica, attivista dei diritti umani, afrodiscendente. O le migliaia di indigeni che a breve saranno a Brasilia per il secondo Campamento da Terra, represso lo scorso anno con violenza.

Forse non tutto è finito in Brasile e queste mobilitazioni stanno a dimostrarlo. La strada verso le elezioni (alle quali si presenterà come vicepresidente anche una leader indigena, Sônia Guajajara) è ancora lunga, come lungo sarà il processo di rafforzamento delle alleanze sociali e di costruzione di un fronte ampio per andare al secondo turno ed evitare una tragica contesa tra un candidato di centro destra e uno di estrema destra. Ci si augura, però, nelle parole di Frei Betto, che davvero il Brasile sia più grande delle sue crisi e che non precipiterà mai in un abisso.

FONTE: Francesco Martone, IL MANIFESTO



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