Guerra in Siria, Trump convoca i militari e chiede piani per colpire Assad
WASHINGTON Questa è la «linea rossa» di Donald Trump. O, come dice il senatore repubblicano Lindsay Graham, «il momento della verità per la sua presidenza». Il leader della Casa Bianca ha reagito con furia alle notizie in arrivo da Douma, con un tweet: «Molti morti, compresi donne e bambini, in un assurdo attacco chimico in Siria. L’area delle atrocità è chiusa e circondata dall’esercito siriano che rende l’accesso impossibile. Il presidente Putin, la Russia e l’Iran sono responsabili per l’appoggio a questo animale di Assad. Ci sarà un grande prezzo da pagare».
Ieri è stata una domenica di grande lavoro al Dipartimento di Stato, dove i funzionari hanno raccolto i primi rapporti dei servizi segreti militari e di altri fonti civili dislocate nella zona del blitz. Il tutto mentre da Pyongyang arrivava la notizia che il dittatore Kim Jong-un sarebbe disposto, in un incontro con Trump, a trattare la «denuclearizzazione» della Penisola coreana.
Intanto, il risultato dell’inchiesta lampo sarà discusso stasera in un incontro tra Trump e i vertici militari alla Casa Bianca. Il consigliere per la sicurezza nazionale e l’antiterrorismo, Thomas Bossert, in un’intervista all’ Abc , non ha «escluso» l’idea di un raid americano contro la Siria: «tutte le opzioni sono sul tavolo».
In un altro tweet Trump se l’è presa con il suo predecessore: «Se il presidente Obama avesse attraversato la “Linea rossa” tracciata sulla sabbia, il disastro siriano sarebbe finito molto tempo fa. Non ci sarebbe stata storia per quest’animale di Assad». The Donald richiama, come ha fatto spesso negli ultimi due anni, la situazione del 2013, quando Obama diffidò Assad dall’usare armi chimiche. Il regime di Damasco continuò i suoi bombardamenti con i gas, ma la Casa Bianca non si mosse.
Trump ora si trova esattamente nella stessa posizione, davanti a un dilemma che lui stesso ha costruito, proprio come aveva fatto Obama. Un anno fa, il 4 aprile, gli aerei di Assad uccisero circa 100 persone sganciando ordigni al sarin sul villaggio di Khan Sheikhoun. Il presidente reagì la sera del 6 aprile, mentre era a cena con il leader cinese Xi Jinping nella villa di Mar-a-Lago, ordinando il lancio di 59 missili Tomahawk sulla base di Al Shayrat. In quell’occasione Trump prese un impegno solenne in tv: gli Stati Uniti sarebbero intervenuti ancora in caso di ulteriori raid chimici. Ecco, ora tocca a Trump decidere se attraversare la sua «linea rossa».
Il problema, però, è che lo stesso Trmp, nelle ultime settimane, si è mostrato sempre più insofferente: «È arrivato il tempo di andarsene dalla Siria, lasciamo che siano altri a occuparsene». Il contingente americano è formato da circa 2 mila unità, con base a Manbij e un raggio d’azione circoscritto al Nordest del Paese. Il Pentagono è fieramente contrario allo sgombero: il timore è che i 2-3 mila combattenti dell’Isis possano riorganizzarsi in qualche zona franca della Siria, magari sconfinando in Iraq. Il contrasto tra Trump e il segretario alla Difesa, James Mattis, si è ricomposto qualche giorno fa, con una soluzione di compromesso: i soldati restano nell’area, ma si concentreranno soprattutto «nello sradicamento» dei terroristi.
Sul piano geopolitico le conseguenze di questo approccio minimalista sono molto chiare: abbandonare a se stessi i ribelli siriani alleati; avallare, sia pure in modo indiretto, la sopravvivenza del regime di Assad; lasciare che Russia, Iran e Turchia si spartiscano le zone di influenza.
Ma i gas di Damasco stanno dimostrando quanto questa strategia sia eticamente, prima ancora che politicamente, insostenibile, visto che gli Stati Uniti considerano la reazione all’uso dei gas «una questione di coscienza», come ha ripetuto negli ultimi mesi l’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley. La comunità internazionale si è già mobilitata. Oggi a New York dovrebbe esserci una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu, su richiesta della Francia. Ma le Nazioni Unite escono addirittura ridicolizzate da Assad. La tregua di trenta giorni concordata all’unanimità il 24 febbraio scorso, si è rivelata effimera. A maggior ragione tocca a Trump decidere e risolvere il suo dilemma.
FONTE: Giuseppe Sarcina, CORRIERE DELLA SERA
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