by Intervista a cura di Alberto Zoratti, dal 15° Rapporto sui diritti globali | 13 Aprile 2018 7:39
Per Emanuele Bompan, giornalista ambientale, geografo e autore del libro Che cosa è l’economia circolare, solo un’economia circolare dell’energia e dei carburanti ci salverà dalla catastrofe climatica. Questo modello di economia, al di là di aggettivi e definizioni, spesso imposte dal marketing, diversamente dall’economia lineare, «è una summa di pratiche, principi, modelli di business e valori, che si fondano su oltre 50 anni di ricerca ambientalista ed ecologista, oltre che economica, geografica, di design e diritto». Un modello che può produrre anche nuova occupazione, tenuto ben presente che l’economia circolare non può essere rigenerativa per la natura e non esserlo per il sociale; il lavoro di qualità e dignitoso è dunque parte integrante dello stesso discorso. Per parte sua, l’impresa, deve agire per minimizzare la social footprint, ovvero l’impronta di impatto sociale d’impresa, massimizzando invece le condizioni lavorative e il welfare, impiegando a tal fine gli extra profitti derivati dal ciclo ristretto della materia.
Rapporto sui Diritti Globali: Economia circolare, sembra che ogni anno esca un nuovo aggettivo com cui accompagnare lo sviluppo economico: prima solidale, sostenibile, quindi ecologico, ora circolare. Ma si tratta di marketing o di quale fenomeno stiamo parlando?
Emanuele Bompan: Fare la genealogia di un sapere, è un esercizio molto complesso. Ogni aggettivo, spesso masticato e digerito dal mondo del marketing e della comunicazione aziendale, sottende a un preciso percorso di ricerca del mondo ambientalista. Se con Rachel Carson e il Club di Roma si è delineato il problema del petrocapitalismo lineare, un economista come Lester Brown ha iniziato a parlare di economia fondata su rinnovabili e sostenibilità, poi con il summit di Rio si è parlato di sostenibilità e clima, quindi si è passati, attraverso una galassia di pensatori che spaziano da Gunter Pauli (blu Economy) a Amory Lovins (Economia Efficiente), recuperando Georgescu-Rogen e idolatrando Serge Latouche (economia dell’abbastanza). L’economia circolare, vista dalla prospettiva di chi realmente pratica questi saperi (non il marketing corporativo, che peraltro sta lentamente capendo che il greenwashing non paga, specie ora che sono le corporation stesse a pagare i danni ambientali di 150 anni di economia lineare), racchiude tutte questi saperi e forse anch’essa sarà un elemento fondativo di un nuovo modo di produrre e consumare che arriverà tra una decina d’anni (economia della consapevolezza? Roboteconomy? Spaceconomy?). Pensare a un aggettivo o solamente a un termine è una riduzione inutile. Per sapere che cosa è l’economia circolare bisogna analizzarla nella sua complessità, e che fortunatamente non è ingabbiata in una definizione sintetica, ma è una summa di pratiche, principi, modelli di business e valori, che si fondano su oltre 50 anni di ricerca ambientalista ed ecologista, oltre che economica, geografica, di design e diritto.
RDG: Quanto l’economia circolare rischia di diventare semplice retorica istituzionale o quanto può sviluppare un indirizzo generale, magari rientrando a pieno titolo negli SDGs, senza però un approccio vincolante che permetterebbe di scegliere decisamente una strada più sostenibile nel produrre e consumare?
EB: Lo abbiamo visto con il “green”, un’etichetta vacua divorata da chiunque necessitasse ripulirsi la coscienza o distogliere l’attenzione. Dalle compagnie petrolifere sostenibili, al mondo minerario green, dai prodotti superflui “amici dell’ambiente” ai prodotti chimici per scrostare la tazza del cesso che fanno “bene alla natura”. Ossimori che hanno intasato il mondo della comunicazione, senza che i nessuno si accorgesse del dramma che si stava consumando: la delegittimazione della sostenibilità ambientale dell’economia, dove buoni e cattivi in maniera equalizzante stavano dalla parte della ragione. Quindi il rischio che ciò si verifichi per l’economia circolare è reale. Sento spesso soggetti poco circular che pretendono di essere campioni dell’economia circolare. La fortuna è che oggi, data la situazione ambientale, economica e demografica, per le imprese è una reale convenienza essere sinceramente circular. Data la complessità di creare un’economia circolare a larga scala (poiché si fonda su un radicale riassestamento di flussi, modelli di business, saperi e strategie di produzione) un indirizzo generale, sia a scala nazionale (più che l’industria 4.0, una strategia di sviluppo economico deve fondarsi in primis sulla circular) che internazionale (World Bank, WEF e FMI stanno iniziando adesso a considerarla un modello di sviluppo strategico, specie per le economie emergenti, più facilmente riconfigurabili). Il vantaggio economico e strategico dato dalle pratiche di circolarità – riduzione della dipendenza da materie prime dall’estero su tutti – è per molti evidente: quindi più che un approccio vincolante serve un forte sostegno alla ricerca, alla divulgazione e all’innovazione.
RDG: Le organizzazioni ambientaliste da anni stanno parlando di chiusura dei cicli produttivi e dopo tanti anni le istituzioni sembrano rispondere: la Commissione Europea con un piano di azione e una stakeholders’ platform; il Parlamento Europeo con una relazione; il ministro Gianluca Galletti con una dichiarazione durante il G7 ambiente a Bologna. Si sta concretizzando qualcosa?
EB: Ancora una volta le istituzioni inseguono il mondo economico, associativo e culturale (e nemmeno particolarmente bene, visto che il pacchetto per l’economia circolare è già sorpassato e Galletti non ha convinto il suo collega Carlo Calenda a valutare l’importanza della circular). C’è molto fermento sul tema a livello di territori, con Milano, Torino, l’Emilia e il Trentino che spingono con forza per uno sviluppo a larga scala, provinciale o metropolitana, di questo nuovo tipo di economia, investendo su innovazione (Progetto Manifattura a Rovereto), coinvolgendo attori sociali ed economici (il progetto Retrace a Torino). Paesi come l’Olanda e la Finlandia hanno lanciato importanti strategie nazionali incentrate sulla circular e persino la terribile Chamber of Commerce Americana, che da sempre ha detestato l’intero mondo del green, guarda con interesse alla portata dell’economia circolare.
RDG: Esistono reti della società civile capaci di rispondere a questa esigenza creando filiere realmente circolari? Puoi descriverne alcune?
EB: L’economia circolare è un paradigma industriale, quindi coinvolge direttamente il settore produttivo, sia agricoltura, che imprese, che servizi. La società civile ha il dovere di intervenire nel sostegno, divulgazione e monitoraggio di queste filiere a livello industriale, mentre può essere attore diretto nelle filiere locali fatte di artigiani, agricoltori diretti, economia sociale. L’interesse dello sviluppo della circular a livello territoriale vede una commistione tra un modo di imprese, sia PMI che corporation e un modo di cittadini, di lavoratori indipendenti. Non importa che siano a Zurigo o Lagos. Ogni attore ha un ruolo specifico. Sicuramente le comunità possono creare nuove interessanti filiere: penso a quella alimentare, come gli orti urbani di Dakar, dove sono i cittadini a realizzare il compost dagli scarti organici, che impiegano per gli orti, con cui si alimentano. Le ciclo-officine che riparano e prestano bici, le comunità di Co-housing dove la condivisione di prodotti e servizi è agevolata da un’architettura su misura, con spazi comuni, lavatrici condivise, car-sharing, bike sharing, stanza degli attrezzi, camera di compostaggio. Un altro grande ruolo della società civile deve essere quello dell’educazione all’economia circolare, dalla gestione del rifiuto alla riduzione dei consumi e al consumo consapevole. Senza il sapere è come avere una Ferrari e guidarla come una Panda.
RDG: Quanto l’economia circolare tiene in conto le questioni del lavoro dignitoso?
EB: Quando ho scritto il libro Che cosa è l’economia circolare, mi sono reso conto che tutti i testi e paper che leggevo non tenevano conto di un elemento fondamentale: la qualità del lavoro. L’economia circolare non può essere rigenerativa per natura e non esserlo per il sociale. Per questo nel libro ribadisco varie volte che è fondamentale la variabile occupazione.
L’uomo non può essere un rifiuto economico che viene scaricato a costo quasi nullo per lo Stato, senza troppe riflessioni. Come lo scarto che va in discarica, viene “buttato via”. Questo, ovviamente, nel sistema ha un riflesso: comporta meno potere d’acquisto, potenziali esternalità negative, sprechi nel modello economico dello Stato. Ecco quindi che l’economia circolare deve essere foriera di posti di lavoro, con orari ridotti e occupazione diffusa. L’ottimizzazione dei costi di produzione non deve andare a interferire eccessivamente con il costo del lavoro. Anzi: l’ottimizzazione dei costi legati alla gestione delle risorse e dei consumi derivata dai modelli circolari dovrebbe aumentare naturalmente la disponibilità economica per coprire il costo del lavoro (tasse permettendo). Secondo uno studio pubblicato da Green Alliance UK, se la crescita di imprese che adottano modelli di economia circolare crescesse in maniera omogenea entro il 2030, in Gran Bretagna si potrebbero creare 200 mila posti di lavoro, togliendo circa 54 mila persone dai sussidi di disoccupazione. In uno scenario di crescita sostenuta del modello circolare si potrebbe addirittura generare mezzo milione di nuovi posti di lavoro. Praticamente andando a compensare la perdita del 1,8% della forza lavoro professionale prevista a causa della crisi e dell’automazione e informatizzazione del lavoro.
Il lavoratore dell’economia circolare si presenta come lavoratore qualificato (non deve avere competenze ultra-specifiche, al contrario del lavoratore fordista-toyotista), attivo (deve proporre continue implementazioni di sistema, sia di produzione che di gestione del luogo di lavoro, sia esso ufficio o manifattura industriale o 2.0), creativo (deve conoscere programmazione, praticare il pensiero sistemico, deve capire strategie efficaci per comunicare e condividere nuovi sistemi di produzione). L’impresa, dal canto suo, deve agire per minimizzare la social footprint, l’impronta di impatto sociale d’impresa, massimizzando le condizioni lavorative e il welfare, impiegando gli extra profitti derivati dal ciclo ristretto della materia.
RDG: Il cambiamento climatico richiede un deciso cambio di rotta non tanto e non solo sulle normative ma anche sulle pratiche. Riuscirà l’economia circolare a creare l’ambiente adatto per questa trasformazione?
EB: È uno dei tanti tasselli che servono per fermare il climate change. Certo nessuna fonte fossile è circolare, quindi, ça va sans dire, solo una economia circolare dell’energia e dei carburanti ci salverà dalla catastrofe. Certo è che in alcuni settori non energetici – pensiamo all’edilizia circolare e al riuso del cemento che da solo contribuisce al 3% delle emissioni globali – adottare l’economia circolare ha impattato evidenti di riduzione delle emissioni della CO2. FCA, ad esempio, nell’impianto pilota di Cassino ha ridotto le emissioni legate alla produzione di auto del 17%. Naturalmente, se passasse ad auto elettriche, sharing e usate in carpooling questa riduzione sarebbe ancora più evidente. A patto che l’energia provenga da fonti non fossili.
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Emanuele Bompan: è giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, innovazione, energia, mobilità sostenibile, green economy, politica americana. Vive tra Rovereto e Milano. Collabora con testate come “La Stampa”, “BioEcoGeo”, “Materia Rinnovabile”, “Equilibri”, “La Nuova Ecologia”. Autore di numerosi libri, ha un dottorato in geografia e collabora con ministeri, fondazioni e think-tank. Offre consulenza a start-up green e incubatori specializzati in clean-tech.
Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship ed è stato nominato Giornalista per la Terra 2015. Ha svolto reportage in 70 Paesi, sia come giornalista sia come analista.
Ha pubblicato il libro Che cosa è l’economia circolare (con Ilaria N. Brambilla, Edizioni Ambiente, 2016).
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IL 15° RAPPORTO SUI DIRITTI GLOBALI PUO’ ESSERE ACQUISTATO O ORDINATO IN LIBRERIA, OPPURE DIRETTAMENTE ONLINE DALL’EDITORE[1]
Riportare i diritti nel lavoro. Leggi qui la prefazione di Susanna Camusso[3] al 15° Rapporto
Il vecchio che avanza. Leggi e scarica qui l’introduzione di Sergio Segio[4] al 15° Rapporto
La presentazione alla CGIL di Roma[5]
Qui la registrazione integrale della presentazione[6] alla CGIL di Roma del 27 novembre 2017
Qui le interviste[7] a Sergio Segio, Patrizio Gonnella, Marco De Ponte, Francesco Martone
Qui notizie e lanci dell’ANSA[8] sulla presentazione del 15° Rapporto
Qui il post di Comune-Info[9]
Qui si può ascoltare il servizio di Radio Articolo1 curato da Simona Ciaramitaro[10]
Qui un articolo sul Rapporto, a pag. 4 di ARCI-Report n. 37[11]
Qui un articolo sul Rapporto, da pag. 13 di Sinistra Sindacale n. 21[12]
Qui la registrazione di Radio Radicale della presentazione del 15° Rapporto a Torino, il 31 gennaio 2018[13]
Qui un’intervista video a Sergio Segio e Susanna Ronconi sui temi del nuovo Rapporto[14]
Qui l’articolo di Sergio Segio “L’apocalisse e il cambiamento possibile”, da Appunti n. 23, 1/2018[15]
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