by Claudia Fanti | 6 Aprile 2018 10:50
Che Lula finisse dietro le sbarre: questo volevano i responsabili del processo golpista iniziato nel 2016 con la destituzione della presidente Dilma Rousseff. E questo otterranno. Così ha disposto il plenario del Supremo tribunale federale, che mercoledì ha respinto, con 6 voti contro 5, la richiesta di habeas corpus presentata dai legali di Lula affinché potesse attendere in libertà l’esito dei ricorsi presso le istanze superiori contro la condanna in secondo grado a 12 anni e 1 mese di carcere per corruzione passiva e riciclaggio di denaro.
PER IL CASO, cioè, del presunto occultamento della proprietà di un appartamento di lusso a Guarujà intestato all’impresa di costruzioni Oas, di cui Lula è stato accusato malgrado l’assenza di qualsiasi prova. «Che venga registrato negli annali del Stf: ha vinto la strategia!», ha denunciato Marco Aurélio Mello, uno dei 5 ministri che si è espresso a favore di Lula, dopo il voto della ministra Rosa Weber che ha deciso le sorti dell’ex presidente. Regista della «strategia», la presidente della Corte suprema Cármen Lúcia, che ha optato per la sola analisi del caso specifico dell’habeas corpus di Lula, anziché mettere in agenda la questione di fondo della costituzionalità o meno dell’arresto dopo la condanna in secondo grado, anche a fronte dell’incertezza giuridica che, su tale punto, regna in Brasile dal 2016.
Da quando, cioè, la Corte Suprema ha deciso di rivedere la giurisprudenza che, in linea con il dettato costituzionale, consentiva l’arresto solo nel momento in cui la sentenza fosse passata in giudicato.
DECISIONE, QUELLA DEL 2016, che appare ancor più controversa se si considera la motivazione che ne ha offerto, nel plenario di mercoledì, il ministro Barroso, convinto che, senza la spada di Damocle della detenzione dopo il secondo grado di giudizio, verrebbe meno la spinta alla delação premiada (l’inaffidabile collaborazione con i magistrati in cambio di uno sconto di pena). Personalmente contraria all’arresto prima dell’esaurimento di ogni risorsa processuale, Rosa Weber avrebbe votato a favore di un pieno recupero del dettato costituzionale, ma, chiamata a esprimersi solo sul caso specifico di Lula, si è attenuta all’interpretazione attualmente in vigore, nella convinzione che le «voci individuali» debbano cedere il passo a «una voce istituzionale».
ACCOMPAGNATO da manifestazioni a favore e contro di Lula – ma molto più dalle prime che dalle seconde – il verdetto del Stf rischia di accelerare l’escalation di intimidazioni e violenza che si registra in un Paese sempre più a rischio fascismo. A partire dall’omicidio di Marielle Franco, ma anche dall’attentato del 27 marzo contro la carovana di Lula che percorreva il sud del Paese. Rispetto ai tempi del lulinha paz e amor, lo slogan diventato espressione di una politica di conciliazione di classe che aveva almeno apparentemente unificato il Paese sotto i governi del Pt, sembrano davvero passati secoli.
A surriscaldare un clima già rovente sono poi intervenuti i militari, mai tanto protagonisti sulla scena politica brasiliana dalla fine della dittatura. Così, dopo le velate minacce del generale in pensione Antônio Mourão riguardo a una presunta «collera delle moltitudini», e dopo le dichiarazioni ancora più esplicite di un altro generale in pensione, Luiz Gonzaga Schroeder Lessa, che si è spinto a evocare «il ricorso alla reazione armata» nel caso in cui la Corte Suprema si fosse pronunciata a favore di Lula, è stato addirittura il comandante dell’esercito Eduardo Villas Bôas, alla vigilia del pronunciamento del Stf, ad «assicurare alla nazione» l’adesione delle forze armate al «rifiuto dell’impunità» di «tutti i buoni cittadini» e la loro attenzione «alle proprie missioni istituzionali».
RESTA ORA DA VEDERE quale effetto avrà sul popolo brasiliano l’imminente arresto di Lula. Per il quale, però, bisognerà ancora attendere la notifica del Stf al Tribunale Regionale Federale di Porto Alegre, che a sua volta dovrà avvisare il giudice Sérgio Moro, a cui spetta l’emissione dell’ordine di cattura. Quanto alla candidatura di Lula alle presidenziali di ottobre, se neppure l’arresto può impedirla in via definitiva – la decisione spetta, ma non prima di agosto, al Tribunale di giustizia elettorale – di sicuro non è mai apparsa tanto lontana. «Non avrebbero promosso un golpe per poi lasciare che mi candidassi», ha dichiarato Lula dopo la sentenza del Stf. E di una «giornata tragica per la democrazia e per il Brasile» parla il Partito dei lavoratori, sottolineando come la Corte abbia ceduto alle pressioni «orchestrate in modo scandaloso dalla Globo», il più importante gruppo di comunicazione e tra i principali artefici del golpe contro Dilma Rousseff.
FONTE: Claudia Fanti, IL MANIFESTO[1]
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