La spartizione della Siria nel vertice di Ankara tra Erdogan, Putin e Rohani

La spartizione della Siria nel vertice di Ankara tra Erdogan, Putin e Rohani

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Nella sedicente pax syriana, quando è il Cremlino che taglia le fette di torta, bisogna sapersi accontentare e inghiottire qualche boccone amaro. I curdi dovranno archiviare i sogni di uno stato facendosi bastare, se regge, Assad non riavrà lo spicchio di Nord siriano in mano ai turchi e Israele potrà mettere in sicurezza il Golan occupato nel 1967 se smette di bombardare in territorio siriano. Ai jihadisti resterà la “discarica” di Idlib dove cominciare a riciclarsi.

Con il vertice di Ankara tra Erdogan, Putin e Hassan Rohani si è definito il nuovo triangolo mediorientale: si tratta dell’evoluzione più paradossale della guerra di Siria. Un Paese, membro della Nato dagli anni Cinquanta, bastione dell’Alleanza contro Mosca, si è messo d’accordo con la Russia e con l’Iran, bestia nera degli Stati Uniti e di Israele. In sintesi un Paese dello schieramento atlantico è sceso a patti contro gli avversari, veri o presunti, dell’Occidente per spartire la Siria in zone di influenza. Non è neppure secondario che Erdogan, incline a presentarsi come paladino dei sunniti, abbia stretto intese con gli ayatollah sciiti, nemici dei jihadisti e del mondo islamico salafita.

La Turchia vuole prendere il controllo dell’area Nord dei curdi siriani, ritenuti da Ankara degli alleati del Pkk turco – tutti considerati dai turchi dei terroristi – la Russia intende consolidare le sue basi aeree e navali sulle sponde del Mediterraneo mentre l’Iran ha come interesse principale tenere in piedi a Damasco un regime amico per dare consistenza alla Mezzaluna sciita. L’arco che partendo da Teheran e passando per Baghdad e Damasco arriva alle postazioni degli Hezbollah in Libano, la pistola puntata del ayatollah contro Israele.
Se il progetto troverà riscontri nel prossimo futuro, significa che Russia e Iran hanno vinto la guerra di Siria due volte: la prima tenendo in piedi Assad, la seconda portando nel loro campo un pilastro della Nato. La Turchia ospita, oltre alle basi, anche i missili americani puntati contro Mosca e Teheran.

Gli Stati Uniti, come ha detto Donald Trump, vogliono andarsene dalla Siria dove sono entrati dall’Iraq per fare la guerra ala Califfato e sembrano orientati ad abbandonare in parte i curdi siriani, i loro alleati contro l’Isis: Washington ha lasciato che la Turchia entrasse ad Afrin e forse potrebbero cedere Manbij dove sono schierate truppe Usa. Non solo. Il presidente americano ha pure congelato 200 milioni di dollari in aiuti destinati ai curdi.

Quale è il piano americano da contrapporre al triangolo Russia-Turchia-Iran? Pur mantenendo la basi in Turchia e nel Golfo, lasciare che se la sbrighino sul campo potenze esterne e regionali: in realtà gli Usa contano sulla disponibilità di Israele a fare il poliziotto della regione e in parte sull’Arabia Saudita, che dopo avere sostenuto le milizia islamiche in Siria annaspa nella guerra in Yemen contro i ribelli sciiti Houthi alleati di Teheran.

Si tratta però di un vuoto di idee e diplomatico rischioso, con un fine auspicato dal nuovo consigliere della sicurezza nazionale John Bolton. Dare via libera a Israele per un conflitto contro l’Iran e al principe Mohammed bin Salman, dimostratosi finora in Yemen incapace sotto il profilo militare. Forse gli israeliani potrebbero dargli una mano, visto che neppure gli americani riescono a regalare una vittoria ai sauditi in cambio di miliardi di commesse militari.

La Russia intanto raccoglie i dividendi della Siria. Putin con Erdogan ha inaugurato la prima centrale atomica di Mosca sul Mediterraneo mentre vanno avanti i piani del gasdotto Turkish Stream.
Se andiamo a vedere i risultati strategici la Russia esce vincitrice, per il momento, nel confronto con Washington e un’Europa assente, che vede Erdogan soltanto come il riottoso e ben pagato custode dei profughi siriani. Gli Stati Uniti, con i loro alleati turchi, arabi ed europei, intendevano abbattere nel 2011 il regime di Assad ma sono andati incontro a una sonora sconfitta in questa guerra per procura contro il maggiore alleato dell’Iran. E la Turchia, pur di preservare i suoi confini dall’avanzata dei curdi siriani, ha ribaltato la sua collocazione geopolitica.

Ma la partita non è finita. L’Arabia Saudita, con le dichiarazioni del principe Mohammed sul diritto di Israele ad avere un suo stato, segnala che vuole trascinare le monarchie del Golfo dal lato di Tel Aviv pur di contenere la Mezzaluna sciita. Le prossime mosse ci daranno anche le sfaccettature di quello che sarà nei mesi a venire il prisma del conflitto mediorientale. Trump, sulla spinta dei neo-con della Casa Bianca, Mike Pompeo e Bolton, rispettivamente segretario di Stato e consigliere della sicurezza nazionale, intende cancellare l’accordo di Obama con Teheran sul nucleare. Si aspettano come minimo nuove sanzioni e ulteriori difficoltà per Paesi europei in affari con gli iraniani, tra cui anche l’Italia che da poco ha aperto una linea di credito da 5 miliardi di euro.

Nonostante le indicazioni di un disimpegno americano, in realtà il Medio Oriente allargato resterà nel mirino Usa: la partita è strategica ma anche economica, dalle rotte del gas nel Mediterraneo orientale alle nuove “vie della Seta”, ferroviarie, autostradali, marittime e portuali, in mano agli investimenti cinesi. Da queste parti forse non sarà più America First, ma Israel First, come del resto è sempre apparsa la politica americana pesantemente condizionata dalla lobby filo-ebraica e dall’inimicizia con l’Iran.

FONTE: Alberto Negri, IL MANIFESTO



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