Strage di Gaza, una tragedia «prevedibile»
Decine di tiratori scelti israeliani prendono la mira sul dosso di una trincea scavata ai bordi della Striscia di Gaza. I cecchini inviati dai comandi militari e dal governo di Tel Aviv non devono ricaricare, le loro armi di precisione permettono più bersagli. E non sbagliano. Nell’arco di pochi minuti una immensa manifestazione di popolo si trasforma in un cimitero palestinese. L’ennesimo. Ma naturalmente era «prevedibile». Era annunciato dalle parole del ministro-falco Lieberman (ma il governo israeliano a guida del corrotto Netanyahu è di estrema destra ed è tutto di falchi): chi avesse osato attraversare il limite tra Gaza e Israele – artificiale, perché Israele non ha confini definiti – sarebbe stato «un uomo morto».
Così il tiro al piccione – altro che «battaglia» come hanno titolato tanti giornali italiani – contro adolescenti, donne, bambini, contadini (mentre scriviamo i morti, tutti palestinesi, sono 17 e i feriti più di 1.500) non viene nemmeno condannato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. La strage di Gaza è terrorismo di Stato, ma era «prevedibile».
Insomma, di che lamentarsi se si conferma la condizione disperata dei palestinesi? Il loro primo dramma è di essere divisi, ma sul tema del ritorno invece sono uniti. Ieri come non mai erano in tanti, arrivati da tutti i Territori occupati, dove si è protestato anche a Hebron e Ramallah, per ricordare al mondo che si è scordato di loro che la protesta della Giornata della terra – nella stessa data del 1976 in cui ci fu un’altra strage per la confisca di terre ad arabo-israeliani – rivendica il diritto a tornare lì dove sono stati cacciati nel 1948 nella forma della pulizia etnica: per quella che chiamano Nakba (Tragedia), e che invece è l’evento fondativo dello Stato d’Israele. Il quale considera invece il «diritto al ritorno» come costitutivo della propria natura esclusiva di Stato ebraico. Ai palestinesi al contrario non è permesso nemmeno immaginarlo il ritorno, come è «prevedibile» dati i rapporti di forza, la violenza militare dell’occupazione e della repressione che ha riempito di prigionieri politici le galere israeliane dove langue il leader legittimo della Palestina, Marwan Barghouti. Ai palestinesi, «prevedibilmente» è permesso solo vivere a milioni nei campi profughi di un Medio Oriente stravolto dalle guerre occidentali; come migranti nei propri territori occupati (Cisgiordania e Gerusalemme est), con due Risoluzione dell’Onu (il diritto internazionale, non le pretese palestinesi) che impongono allo Stato occupante di liberarli; e sempre più nell’indigenza, chiusi dentro la prigione a cielo aperto che è la Striscia di Gaza.
Questa è la condizione palestinese, con il Muro di Sharon che ruba terre, posti di blocco, sradicamento di colture, uccisioni quotidiane, una miriade di insediamenti colonici che hanno ormai cancellato la continuità territoriale di quello che poteva essere lo Stato di Palestina. Per una soluzione di pace ormai «prevedibilmente» impossibile.
Del resto gli accordi di pace, dopo l’uccisione nel 1995 del premier israeliano Ytzhak Rabin ad opera di un estremista integralista ebreo, era «prevedibile» che diventassero carta straccia. Ora poi che Trump ha deciso a maggio – dura sei settimane, fino a quella data, la grande protesta del popolo palestinese – di spostare a Gerusalemme l’ambasciata Usa, di fatto riconoscendo la legittimità dell’occupazione militare d’Israele. Ma era «prevedibile». Dopo tante chiacchiere di Obama che nel 2009 all’Università del Cairo, dichiarava di «sentire il dolore dei palestinesi senza terra e senza Stato»; e dopo gli slogan e i voltafaccia dell’Unione europea che si trincera nel silenzio, mentre ogni governo occidentale fa affari con armi e tecnologia, con patti militari – come fa l’Italia – con un paese, Israele, da 70 anni in guerra e che occupa illegalmente terre di un altro popolo.
Il governo Netanyahu dichiara a difesa del suo operato criminale che «si tratta di azioni terroristiche». Ma la verità è che un popolo oppresso che manifesta pacificamente come è accaduto nel venerdì di Pasqua, ricorda solo le lotte di liberazione dei popoli, e i suoi sacrosanti diritti sanciti da ben tre Risoluzioni dell’Onu (una del 1949 proprio sul «ritorno»).
Eppure non dobbiamo distogliere dalla nostra considerazione la questione del terrorismo, quello jihadista, quello che viene agitato spesso a sproposito in Italia, e che nelle capitali europee e occidentali ormai vede la scia di sangue di ritorno per le guerre in Libia e in Siria che abbiamo scientemente contribuito a far deflagare. Perché è giusto ricordare che nell’immaginario fondativo di al-Qaeda e della sua diaspora anche di nuova generazione, c’è la questione dell’occupazione dei luoghi sacri dell’Islam (da quelli dell’Arabia saudita fino a Gerusalemme).
E la questione palestinese, con le sue nuove stragi impunite, abbandonata dall’opinione pubblica occidentale, dalla “sinistra che non c’è più” e dal mondo intero, consegnata dalla diplomazia mondiale all’elemosina dell’Onu e nelle mani dei “sultani” Al Sisi e Erdogan, può finire ancora peggio. Può essere ulteriormente straziata da rivendicazioni terroriste di matrice jihadista. È un pericolo reale.
Allora, o si esce dal silenzio complice e si prefigura una soluzione di pace che esca dall’ambiguità di stare al di sopra delle parti, come se Israele e Palestina avessero la stessa forza e rappresentatività, mentre da una parte c’è solo lo Stato d’Israele, potente e armato fino ai denti, potenza nucleare e con l’esercito tra i più forti al mondo, e dall’altra invece lo Stato palestinese e la sua «Autorità» semplicemente non esistono. Oppure sarà troppo tardi e tutto diventerà «prevedibile».
FONTE: Tommaso Di Francesco, IL MANIFESTO
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