Dopo Pombeo, Bolton. La rivincita dell’ala ideologica Usa su quella militare
Perché il presidente non ha una politica estera definita e procede sulla base di una generica dottrina isolazionista
Come il suo precursore italiano, il presidente Usa diffida di chi ha barba o baffi. Berlusconi pensa che l’uomo barbuto o baffuto, dietro folti peli, abbia qualcosa da nascondere e «non è una faccia pulita». E in ogni caso, è convinto che, come lui, il grosso della gente non si sintonizzi con un personaggio pubblico che non abbia il viso ben rasato.
Anche Trump, come il Cavaliere, viene dal mondo dell’impresa legata all’intrattenimento e ragiona in termini di casting. Ai suoi collaboratori, oggi come nel suo passato d’imprenditore e di entertainer, sono interdetti barba e baffi perché, come ha spiegato Steve Bannon a Michael Wolff, l’autore di Fire and Fury, il libro sui retroscena della Casa bianca di Trump, il presidente «pensa che uno così non sia nella parte» che gli è affidata.
E dunque «i baffi di Bolton sono un problema», aveva confidato a Bannon, rassegnandosi all’idea che il «suo» candidato prima alla carica di segretario di stato poi a quella di consigliere per la sicurezza nazionale non ce l’avrebbe fatta a entrare nella cerchia ristretta del boss.
Come si sa al dipartimento di stato fu piazzato Rex Tillerson, il capo della più potente multinazionale del petrolio, qualche giorno fa licenziato in tronco e sostituito da Mike Pompeo, il direttore della Cia. E alla guida del consiglio per la sicurezza nazionale, dopo la fulminea apparizione e sparizione di Michael Flynn, fu nominato il generale H. R. McMaster. Anch’egli invitato, con qualche rispetto in più per il galateo, a lasciare nei prossimi giorni le sue stanze alla Casa bianca. Le più vicine allo studio ovale del presidente. Stanze dove ora è atteso il «tricheco», come negli ambienti della diplomazia americana chiamano l’uber-hawk, il «superfalco», destinato a guidare con Pompeo la politica internazionale americana.
Non si è tagliato i baffi, Bolton, per avere il posto di McMaster, evidentemente non erano una «questione politica», quando invano Bannon cercava un complice da mettere al fianco di Trump per tradurre anche in politica estera e militare le sue idee all’insegna dell’America First.
E premeva perché fosse scelto l’ex-ambasciatore all’Onu, uno dei registi della guerra irachena, un’infamia da ogni punto di vista che continua tuttora a difendere con grottesca convinzione, e oggi il più strenuo assertore della cancellazione dell’accordo sul nucleare iraniano secondo la teoria to stop Iran’s bomb, bomb Iran («per fermare la bomba dell’Iran, bombarda l’Iran»).
Quando Trump mise in piedi la sua squadra di consiglieri e ministri non riuscì del tutto a comporre il cerchio magico disegnato da Bannon per tradurre in politica il suo «caos creativo», e, dovendo cedere pezzi di sovranità all’establishment, specie al potere militare, nominò nei posti chiave della sicurezza nazionale tre generali: il capo del Pentagono, Mad Dog Mattis, il capo dello staff, John Kelly, e il consigliere per la sicurezza nazionale H. R. McMaster.
Secondo gli auspici dei poteri forti repubblicani, timorosi dell’imprevedibile condotta di Trump, i tre avrebbero dovuto svolgere un ruolo di contenimento della sua esuberanza e contrastare la forza persuasiva sul presidente esercitata dal clan Bannon. Sembrava che i militari fossero riusciti a dare un qualche senso ai comportamenti del presidente, anche mettendo in minoranza Bannon, costretto infine a lasciare il posto.
In realtà, Bannon non è stato con le mani in mano e, anche da fuori, ha continuato a influenzare le scelte di Trump, peraltro sempre più insofferente alla disciplina che gli vogliono imporre i generaloni. Di qui il siluramento di Tillerson e poi quello di McMaster. E pare prossima la cacciata di Kelly, che Trump proprio non sopporta, con l’idea che il suo posto resti vuoto perché sarebbe lo stesso Trump a svolgere le funzioni di capo dello staff di se stesso.
La rivincita dell’ala ideologica rispetto a quella militare dovrebbe significare un cambiamento significativo della politica estera dell’amministrazione Trump, dal Medio all’Estremo Oriente, dall’Iran dalla Corea del nord. In termini relativi sarà così, ma non perché McMaster sia una colomba o Kelly una mammola.
Il punto è che Trump non ha una politica estera definita, e anche su quel terreno sembra procedere per intuizioni, pulsioni e improvvisazioni, sulla base di una generica dottrina isolazionista, riluttante all’interventismo militare. Isolazionista e anti-war non certo per principio.
Come scrive Greg Sargent sul Washington Post «la sua postura è quella di chi magicamente annienta i nemici e aggressivamente rappresenta i nostri interessi all’estero senza sforzo, senza alcun serio costo, perché lui è più forte, più tosto e più astuto delle elite». Finora la valigia nucleare è stata sorvegliata dai militari che, saranno pure superfalchi, ma conoscono bene le conseguenze del ricorso alla guerra, che, nella visione di Bolton, non è l’ultima carta da giocare, ma la prima, in una sequenza rinnovata delle disgraziate avventure americane in Medio Oriente.
Se McMaster aveva la funzione di contenimento degli impulsi di Trump, Bolton, con Pompeo, dà loro una base «logica» e una forma, indirizzandoli dove vogliono loro. Ecco perché i baffi del tricheco, al fianco di the Donald, oggi fanno paura. Più delle stellette dei generaloni.
FONTE: Guido Moltedo, IL MANIFESTO
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