by Michele Giorgio | 21 Marzo 2018 11:30
”Odissey Dawn”, la guerra voluta più di chiunque altro da Nicolas Sarkozy, cominciò il 19 marzo del 2011, al termine del vertice a Parigi della “Coalizione internazionale” – Onu, Ue, Usa e Paesi arabi -, con una pioggia di missili da crociera Tomahawk lanciati su una ventina di obiettivi in Libia. L’Italia mise a disposizione ben sette basi militari. I primi missili contro le forze governative però decise di lanciarli Sarkozy. La caduta di Gheddafi serviva a coprire i finanziamenti libici che il presidente francese aveva ricevuto per la sua campagna elettorale quattro anni prima? L’interrogativo è legittimo dopo il fermo di Sarkozy ordinato dalla magistratura francese che indaga sulle dichiarazioni di un faccendiere che dice di aver portato cinque milioni di euro da Tripoli a Parigi tra fine 2006-inizio 2007 per consegnarli a Claude Guéant, tra i fedelissimi dell’ex presidente.
Sarkozy trascinò in guerra prima gli Stati Uniti e l’Inghilterra e poi anche l’Italia, con il consenso pieno del capo dello stato con l’elmetto Giorgio Napolitano e del Pd, e anche di Silvio Berlusconi che in seguito diede il via libera ai bombardamenti aerei italiani. Il desiderio di guerra del presidente francese era smisurato. Su suo ordine i jet francesi già qualche ora prima del lancio dei Tomahawk, avevano fatto strage di carri armati libici facendo esplodere la gioia dei ribelli libici che seguivano l’attacco in diretta su Al Jazeera, tv del Qatar, paese che avrebbe giocato un ruolo centrale nell’attacco volto a rovesciare Moammar Ghaddafi e che già operava dietro le quinte per fomentare la “rivolta” anche in Siria. Il 19 marzo poco dopo mezzogiorno, cinque aerei francesi decollarono dalla base di Saint-Dizier per una missione su tutto il territorio libico. Due Rafale, due Mirage e un aereo radar Awacs «hanno impedito», spiegò lo stesso Sarkozy, «attacchi aerei delle forze di Gheddafi contro Bengasi». I jet in realtà fecero strage non di aerei ma di carri armati e di centinaia di soldati libici. «Finalmente la Francia ha dato una speranza al popolo libico», urlò felice il portavoce del Consiglio di transizione nazionale formato dagli insorti.
Quel giorno da Bengasi, la “capitale” della cosiddetta “Rivoluzione del 17 febbraio”, giungevano notizie drammatiche di bombardamenti contro molti quartieri della città e perfino contro un ospedale. Testimoni parlavano di decine di morti e di migliaia di civili terrorizzati in fuga con ogni mezzo verso il confine col l’Egitto. Il leader degli insorti Mustafa Abdul Jalil invocò l’immediato aiuto di Sarkozy che scalpitava per attaccare. «È in corso un bombardamento su tutti i distretti di Bengasi. Oggi ci sarà una catastrofe se la comunità internazionale non attuerà le risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu», disse Abdul Jalil dando il via libera al presidente francese. Il bombardamento a tappeto, devastante, era una invenzione del capo degli insorti. I giornalisti che poi entrarono a Bengasi si resero conto che «gli attacchi del regime» in realtà avevano provocato pochi danni materiali alla città.
Tutto era cominciato proprio a Bengasi un mese prima, apparentemente sulla scia delle rivolte in Tunisia ed Egitto e delle proteste di massa che infiammavano Yemen e Bahrein. Il 16 febbraio decine di persone erano rimaste ferite e due uccise durante una manifestazione contro l’arresto di un attivista per i diritti umani. Il giorno dopo venne proclamata una “Giornata della collera”, alla quale parteciparono in maggior parte i famigliari di centinaia di detenuti uccisi nella repressione di una rivolta nel carcere Abu Slim di Tripoli che chiedevano la liberazione dell’avvocato legale che li rappresentava. A questi si aggiunsero altri dimostranti. Gli slogan erano soprattutto contro la corruzione dilagante. Le forze di sicurezza reagirono con brutalità. I morti, almeno sette quel giorno, si moltiplicarono nei giorni successivi e gli scontri si allargarono a Derna, Tobruk e a tutto il territorio orientale creando una Libia 2 fino al valico di frontiera di Sallum con l’Egitto. Il 27 febbraio Bengasi e le città della ”rivoluzione del 17 febbraio” diedero vita al ”Consiglio Nazionale Libico” che, tra i suoi primi pronunciamenti, assicurò la validità dei contratti petroliferi con l’Occidente. Poche ore dopo il premier francese Francois Fillon ordina a due aerei di decollare per Bengasi per portare “aiuti umanitari” alla popolazione. Sarkozy aveva già deciso per la guerra e la fine di Gheddafi.
FONTE: Michele Giorgio, IL MANIFESTO[1]
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