Flussi elettorali, dove sono finiti i voti del Pd
Una percentuale che oscilla tra il 15 e il 20% dell’elettorato dem del 2013 domenica ha votato per il Movimento 5 Stelle, ritenuto più credibile nella sua proposta
Sono tante le interpretazioni che si possono dare del voto del 4 marzo, ma quella principale, sulla quale tutti i commentatori politici possono concordare, è che questa tornata elettorale è stata caratterizzata da un messaggio di cambiamento radicale che gli elettori hanno voluto inviare alla classe politica. Si tratta di un messaggio che solo alcune forze politiche più e meglio di altre hanno saputo prima veicolare durante la campagna elettorale e poi intercettare nelle urne. Naturalmente, sappiamo anche qual è stato il partito che ha subito i danni maggiori da questa richiesta diffusa di cambiamento, e cioè quel Partito democratico che nel suo declino elettorale ha portato i consensi dei partiti del centro-sinistra ai loro minimi storici dal dopoguerra ad oggi.
Sappiamo poco, invece, dei partiti che hanno beneficiato da questa ondata di cambiamento e, soprattutto, delle motivazioni. Ma in questo caso ci vengono in soccorso le analisi dei flussi elettorali elaborate nei giorni scorsi dell’Istituto Cattaneo. Gli elementi più rilevanti, anche per il destino delle sinistre, sono sostanzialmente tre.
IN PRIMO LUOGO, i tanti elettori delusi e disorientati del centro-sinistra hanno scelto la via più netta per esprimere il loro dissenso, uscendo dal perimetro ideologico della sinistra per saltare sul carro vincente del Movimento 5 Stelle. In media, una percentuale che oscilla tra il 15 e il 20% dell’elettorato che nel 2013 aveva scelto il Pd domenica ha votato infatti per il partito dei pentastellati, ritenuto più credibile nella sua proposta di cambiamento radicale: della classe politica e delle politiche adottate dai governi che si sono succeduti nel corso delle ultime legislature. Da un lato, con le loro proposte dal sapore in parte sociale e in parte assistenziale (come il reddito di cittadinanza), hanno saputo convincere i settori sociali più marginali (e emarginati) della sinistra. Dall’altro lato, con la loro campagna contro la corruzione e i costi della politica – e nonostante l’inciampo dei finti rimborsi – sono riusciti a fare breccia in quella parte della sinistra italiana un tempo movimentista o girotondina, ma sempre critica verso una classe dirigente del Pd rimasta immobile dentro il partito o trasferita senza troppi traumi dentro il cartello di Liberi e Uguali.
IN QUESTO SENSO, il Movimento 5 stelle esce da queste elezioni non solo rafforzato, ma con una impronta elettorale che lo avvicina un po’ di più agli spagnoli di Podemos che non ai vari movimenti sovran-populisti di destra cresciuti in Europa durante gli ultimi decenni. Un tratto che, oltre ad essere già presente in controluce nei curricula dei vari ministri-ombra (o fake) presentati da Di Maio prima del voto, potrebbe favorire un processo più o meno rapido di «apertura a sinistra» da parte del M5S.
IL SECONDO DATO che emerge dall’analisi dei flussi è che esiste anche tra gli elettori di centro-sinistra, e del Pd in particolar modo, una componente che esprime un atteggiamento di chiusura, se non di rigetto, nei confronti degli immigrati e più in generale dello straniero. Diversi anni fa, un noto politologo statunitense, Seymour Martin Lipset, sosteneva che tra i principali meriti dei partiti di sinistra vi era quello di avere convinto la classe operaia a sostenere misure e posizioni cosmopolite, di stampo progressista nel campo sia dei diritti civili che sociali.
QUEL TEMPO OGGi sembra finito. E non soltanto perché la classe operaia come blocco sociale compatto e facilmente identificabile non esiste più. Ma soprattutto perché una parte dei lavoratori è tornata a sostenere politiche di chiusura che vanno nella direzione di un maggiore «autoritarismo» per quel che riguarda i temi della sicurezza declinati in chiave sia personale che professionale/occupazionale. È per questo che non sorprende, ma deve fare assolutamente riflettere, l’esistenza di una parte dell’elettorato del centro-sinistra che, di fronte a tante alternative «tiepide», ha scelto l’opzione della destra leghista in versione nazional-lepenista. Circa il 10% degli elettori Pd della scorsa tornata elettorale il 4 marzo ha votato per il partito di Salvini: un dato che non deve essere interpretato come una curiosa e un po’ improbabile acrobazia, bensì come un indicatore della diffusione di un malessere – reale o percepito – con cui i partiti di sinistra devono fare i conti se vogliono tornare ad offrire a quel settore della società italiana una credibile proposta alternativa di rappresentanza.
INFINE, IL TERZO ASPETTO di rilievo che si può ricavare dall’analisi dei flussi elettorali è collegato al tema dell’astensione. In questo caso, Liberi e Uguali era nato con l’intento – per usare le parole ormai stantie di Pier Luigi Bersani – di riacciuffare quegli elettori «scappati nel bosco» dell’astensionismo. Un obiettivo nobile, senza dubbio percorribile, ma che avrebbe richiesto una dose maggiore di coraggio sia in termini organizzativi (per intenderci: di rinnovamento della classe dirigente) che programmatici. E invece il neonato progetto di LeU si è rivelato, nelle urne, il rifugio dove nascondere i peccati e i peccatori del Pd, con poco spazio a forme e figure nuove di rappresentanza. Quindi, non può stupire che l’elettorato della nuova formazione venga solo e soltanto dalle vecchie forze politiche di provenienza, Sel da un lato e il Pd dall’altro. Non solo non c’è stata una capacità di attrazione verso altri partiti, ma lo sforzo di recupero verso gli elettori astensionisti si è rivelato un esercizio molto verbale ma poco reale.
PERALTRO, SOPRATTUTTO nelle regioni che un tempo venivano definite «rosse» (e di cui abbiamo decretato la definitiva scomparsa con il voto del 4 marzo), il surplus di astensionismo è stato il prodotto in particolare di elettori di centro-sinistra probabilmente disorientati dalle divisioni dei loro partiti di riferimento, dalle candidature innaturali o paracadutate e dalla mancanza di un ricambio fisiologico della classe politica. Dentro questo scenario, che sembra aver lasciato solo macerie sul campo della sinistra italiana, c’è invece tutto lo spazio per ricostruire qualcosa di più solido. Con chi, come e quando sono questioni sulle quali è già tempo di aprire una operativa riflessione.
FONTE: Marco Valbruzzi, IL MANIFESTO
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