Le suore protestano contro lo sfruttamento del lavoro gratuito per preti e vescovi

Le suore protestano contro lo sfruttamento del lavoro gratuito per preti e vescovi

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Le religiose auspicano che la denuncia della povertà e della sottomissione a cui sono indotte sia «un’occasione per una riflessione sul potere» clericale e patriarcale nella chiesa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il numero di marzo del mensile dell’Osservatore Romano, «Donne Chiesa Mondo» contiene una strepitosa inchiesta sullo sfruttamento delle suore «al servizio di uomini di Chiesa»: preti, cardinali, maschi. L’inchiesta, firmata da Marie-Lucile Kubacki, raccoglie le testimonianze – di grande livello politico – fatte da tre suore a cui è stato cambiato il nome: Suor Marie, Suor Paule e Suor Cécile.

Sotto forma di anonimato ci guidano alla scoperta del lato più invisibile della forza lavoro: quello di cura, fatto al servizio di preti, nel mondo parallelo e intangibile delle gerarchie ecclesiastiche. Sono storie di donne provenienti dall’Africa nera, ad esempio, che servono nelle case di alti prelati romani, altre lavorano in cucina in strutture della chiesa. Altre ancora insegnano o svolgono compiti di catechesi.

La loro denuncia è chiara: contro il lavoro gratuito, o quasi, a cui sono costrette. Non esiste orario di lavoro preciso e regolamentato. La retribuzione, quando esiste, è aleatoria. Su questa denuncia pesa la realtà dello sfruttamento del lavoro femminile e la sua invisibilizzazione causata dal patriarcato e, in questo caso, dal «clericalismo». Ovvero: «il prete è tutto mentre la suora non è niente nella chiesa». Valutare l’entità del valore del «lavoro gratuito» delle religiose è difficile, come altrove nel capitalismo contemporaneo. (Si vedano queste inchieste: quiquiqui e qui)

A tal fine sarebbe utile stipulare «un contratto o una convenzione con i vescovi e le parrocchie» e stabilire una paga dignitosa per chi è occupata nelle scuole, negli ambulatori, nel lavoro pastorale, nelle cucine e nei lavori domestici. Così com’è importante prevedere fondi per la formazione religiosa, professionale e la cura di suore malate o invalidate dall’età.

Queste rivendicazioni, chiare e nette, sono accompagnate da un’analisi che ricorda molto da vicino quelle condotte sin dagli anni Settanta dal movimento femminista italiano che lottava per il «salario domestico» e, oggi, afferma il diritto al «reddito di auto-determinazione» con il movimento «Non una di meno» che si sta preparando per lo sciopero globale delle donne dell’8 marzo.

Rivendicazioni presenti nel piano femminista contro la violenza maschile, 57 pagine di rilevante impatto politico, stabilite dal movimento. «Le suore di vita attiva – sostiene Suor Cécile – sono vittime di una confusione sui concetti di servizio e gratuità. Sono viste come volontarie di cui si può disporre a piacere, il che dà luogo a abusi di potere».

Si tratta della denuncia di quella che , nei saggi sulla «femminilizzazione del lavoro», ha definito la «logica adattativa/sacrificale/oblativa», portato culturale dell’esperienza storica femminile. Le religiose auspicano che la denuncia della povertà e della sottomissione a cui sono indotte sia «un’occasione per una riflessione sul potere» nella chiesa.

E, va aggiunto, anche fuori.

FONTE: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO



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