Intervista a Carlo Cellamare. La città e le periferie. Roma senza progetto di futuro
Si può diventare una capitale mondiale del XXI secolo senza avere un progetto di città? Roma è cresciuta inglobando aree dentro e fuori il Raccordo Anulare ma rinunciando a una visione di futuro. Perché le grandi trasformazioni urbanistiche e sociali che l’hanno investita non hanno saputo disegnare una prospettiva all’altezza dei bisogni che esprimono la sua immensa fama e un territorio molto esteso?
Eppure le potenzialità restano visibili. Le manifesta, soprattutto, chi cessa di aspettare miracoli da una messianica gestione iperpolitica e prova con tenacia a far da sé evidenziando straordinarie ricchezze. Ne abbiamo discusso – cercando di coniugare l’urbanistica, le pratiche sociali e la vita quotidiana – con Carlo Cellamare, autorevole e appassionato docente di urbanistica e progettazione urbana e ambientale al Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Ambientale all’Università La Sapienza di Roma, responsabile scientifico di diverse ricerche a carattere nazionale e internazionale e autore di numerosi saggi, pubblicati in Italia, Francia e Inghilterra.
Rapporto Diritti Globali: A Roma si può davvero parlare di una “città metropolitana”? Cosa la differenzia dalle “città globali” in senso classico?
Carlo Cellamare: Per essere considerata “metropolitana” una città deve dar vita a un sistema urbano ampio e articolato, diversificato, con una molteplicità di funzioni distribuite sul territorio, anche in centri differenti che svolgano un ruolo all’interno di questo sistema. Roma è cresciuta molto, a partire dagli anni Settanta, e poi soprattutto dopo gli anni Novanta, anche in relazione al nuovo Piano Regolatore Generale (PRG), ma non ha dato vita a un sistema ricco e complesso. È cresciuta più su se stessa, inglobando aree o distribuendo sul territorio nuove aree insediative. Non c’è stata una complessificazione del sistema; Roma ha anzi perso funzioni importanti, vede indebolire il proprio modello economico, vi sono grossi problemi con il lavoro, le grandi banche o le sedi delle più importanti società si trovano altrove, in particolare a Milano. Il policentrismo, tanto auspicato dal nuovo PRG e perseguito attraverso le nuove “centralità”, è abortito, soprattutto perché le nuove centralità si sono ridotte a poli del commercio e dello sviluppo insediativo: grandi centri commerciali (tra i più grandi d’Europa) con un nuovo quartiere residenziale attorno; operazioni immobiliari-finanziarie che poco hanno a che vedere con il rilancio della città. Roma è diventata “metropolitana” senza essere una città metropolitana “moderna”. Sebbene il dibattito su Roma “città metropolitana” sia stato sinora sterile, la capitale resta il polo più importante di tutto il centro Italia, con i servizi più rilevanti e un raggio di influenza che copre gran parte del centro e anche del sud Italia (Lazio, Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo, Campania, Molise e Puglia). Bisogna arrivare a Firenze, a nord, e a Napoli, a sud, per trovare qualcosa di paragonabile. Dovremmo ripensare il governo di Roma proprio a partire da questo punto, mentre invece la nuova istituzione “città metropolitana” non ha dato sinora segnali particolari di vita, non ha prodotto politiche adeguate e significative, né una nuova visione. Viviamo in una città dalle grandi ricchezze, che però manca totalmente di politiche internazionali, di una visione che la inserisca nel mondo globale. No, non è una città “globale” nel senso classico del termine, sebbene sia anche la capitale della Cristianità, concentri un patrimonio storico-culturale che non ha confronti nel mondo, e sia anche il nodo di una serie di reti internazionali, oltre che delle rotte delle migrazioni.
RDG: In passato, per Roma hai preferito utilizzare il concetto di città-territorio. Puoi spiegarne le ragioni? Cosa contraddistingue oggi un territorio in una geografia urbana in buona parte da re-inventare?
CM: Roma è cresciuta in maniera indifferenziata, spesso in forma abusiva, proprio perché è mancata una capacità di governarne lo sviluppo. Un terzo della città è di origine abusiva, una componente spaventosa, a ben pensarci. La speculazione edilizia ha fatto in pieno la sua parte: la città si è diffusa sul territorio circostante, lo ha invaso e ora si trova frammentata e distribuita su uno spazio vasto. Il Comune di Roma è il più grande d’Italia, il secondo d’Europa per estensione. Il Grande Raccordo Anulare, che una volta costituiva un argine, segnava il margine tra città e campagna, oggi è un grande boulevard urbano, un’autostrada urbana intorno a cui si organizzano le funzioni di una città estesa, dalla forma indefinita. Una città-territorio, appunto. Mancano punti di riferimento, centralità locali, luoghi di significato che diano senso all’organizzazione insediativa e qualità alla vita degli abitanti. Per la pianificazione, il territorio è l’insieme delle relazioni tra il sistema ambientale e il sistema antropico nella sua evoluzione naturale e nella sua stratificazione storica. Nel passato, pur con i suoi problemi, questo rimandava a una dimensione positiva. Oggi, per alcuni sociologi urbani, il territorio è piuttosto un sistema indifferenziato, privo di emergenze significative, governato dal mercato e dove domina la dimensione del consumo. Ma questo non dice tutto perché, pur in mezzo a molti problemi, i territori esprimono un bisogno di relazioni, una capacità di reazione e una vitalità molto importanti.
RDG: Fuori raccordo, l’ultima raccolta di saggi che hai curato, prova a raccontare la città e il suo tessuto urbano a partire dal punto di vista degli abitanti. Cosa significa l’assunzione di questo punto di vista, in particolare in relazione ai problemi e alle potenziali ricchezze della convivenza tra persone di origine ed estrazione sociale molto differente?
CM: Nel libro si assume il punto di vista dell’abitare, della complessità e ricchezza della vita quotidiana degli abitanti. Questo è fondamentale. Perché si vedono cose che altrimenti non si vedrebbero. Da una parte, gli effetti sulla vita degli abitanti dei grandi processi globali e delle trasformazioni del sistema insediativo (come per esempio la riorganizzazione della città attraverso le centralità), tra cui la frammentazione nello spazio e nel tempo della vita quotidiana, la difficoltà di vivere, l’imposizione dei valori del consumo sui modelli di vita, l’impoverimento delle relazioni sociali e della solidarietà a favore dell’individualismo. Siamo di fronte a un grande cambiamento antropologico. Dall’altra, si vedono la grande ricchezza della vita sociale, gli sforzi di reazione pur in mezzo alle grandi difficoltà, le tante progettualità, la necessità di auto-organizzarsi per rispondere a molte necessità sociali e a tanti servizi, a fronte delle carenze dell’amministrazione pubblica e delle assenze delle istituzioni. Le forme di convivenza tra le diversità sui territori esprimono molte conflittualità, ma anche molti percorsi innovativi che potrebbero essere un riferimento certo per la politica.
RDG: Perché a Roma non si può più parlare di un centro storico e di molte periferie in senso tradizionale?
CM: Lo si poteva dire per il passato, ma ora la classica dicotomia centro-periferia non funziona più. Abbiamo tante periferie diverse. Ad esempio, abbiamo la periferia abusiva, la più recente periferia delle “centralità” e dei grandi centri commerciali, la periferia dei complessi residenziali securitari e delle “gated communities”, quella più dura dei grandi quartieri di edilizia residenziale pubblica (da Tor Bella Monaca a San Basilio, da Corviale a Laurentino 38, eccetera), i nuovi piani di zone sparati nella campagna come ad esempio Monte Stallonara. Spesso i diversi territori sono una frammistione di queste cose. Le periferie spaziali, ovvero i luoghi esterni, lontani dal centro, non sono sempre luoghi del degrado, anche se ci sarebbe da discutere su cosa significhi abitare in quei contesti. D’altronde, alcune periferie, soprattutto i quartieri di edilizia residenziale pubblica, sono tuttora i luoghi della marginalità e del disagio sociale. Così come il centro storico non rappresenta sempre il luogo della ricchezza, ma vive anch’esso la dimensione del disagio e del degrado. Se una volta Roma poteva essere immaginata come un grande e ricco centro storico contornato da una corona di periferia degradata, ora questa grande fascia esterna è molto estesa e differenziata ed è la parte più consistente della città (nel centro storico, dentro le mura, vivono solo circa 100.000 abitanti, a fronte dei quasi tre milioni di abitanti del Comune). È anche quella più vitale, dove ci sono i maggiori problemi, le maggiori capacità di iniziativa e la produzione culturale più significativa della città. Viceversa, il centro storico si sta riducendo a essere un distretto del turismo e del commercio.
RDG: Approfondiamo ancora il discorso sulle periferie…
CM: Semplificando, a Roma ci sono tre grandi tipi di periferie. C’è quella abusiva, che nasce già nel dopoguerra, ma che non è più quel contesto degradato nato per necessità. Con il tempo è diventato un abusivismo per convenienza e poi per necessità, ospita una piccola e anche media borghesia che vuole la casa unifamiliare comoda, caso mai col giardino. Ne nasce una città molto povera, priva di tutto quello che fa “città”: spazi pubblici, aree verdi, attrezzature e servizi, assi commerciali, vita collettiva. È l’azionariato diffuso della rendita urbana. Prevarrebbe solo la logica proprietaria e privatistica, se non fosse per l’iniziativa di alcune associazioni interessanti. Qui si è sviluppato il grande fenomeno dei Consorzi di auto-recupero che, pur con le buone intenzioni di coinvolgere i cittadini nella gestione della città, hanno portato a derive piuttosto pericolose, costruendo di fatto istituzioni intermedie, sostitutive. Poi c’è il fenomeno recente dei grandi centri commerciali e dei quartieri residenziali che li circondano a formare quello che dovevano essere le “centralità” del PRG. Un’edilizia curata dentro palazzi e complessi residenziali di scarso valore architettonico, a formare una città dall’abitare impoverito e dominato dalla logica del consumo. E infine i grandi quartieri di edilizia residenziale pubblica, che hanno i maggiori problemi dal punto di vista sociale, in quanto sono per loro stessa concezione la concentrazione del disagio (povertà, disoccupazione, evasione scolastica, disabilità, eccetera). Qui si svolge una battaglia quotidiana con lo spaccio, e lo spazio è continuamente conteso. Sono quartieri oggetto di stigmatizzazione e di ghettizzazione, ma anche molto vitali e luogo di battaglie quotidiane. In questi luoghi tendenzialmente dimenticati dalle istituzioni, le priorità sono il lavoro e la produzione di reddito.
RDG: Com’è cambiato il territorio al di fuori del Raccordo Anulare? Esiste tuttora un Agro-romano?
CM: Uno dei fenomeni insediativi più recenti e difficili da controllare è la diffusione dell’abusivismo di “piccole estensioni” in aree agricole. Se lo si va a sommare, assume proporzioni paragonabili a quello “urbano”. Insieme all’espansione fuori raccordo si sta “mangiando” l’Agro romano, che, da estesa unità paesaggistica, ambientale e culturale, ora si sta spezzettando in tante aree poco significative. È anche un modo per cercare un vivere di qualità (dal punto di vista residenziale non dell’“abitare”) a prezzi più abbordabili e significa dover fare sistematicamente uso dell’auto privata per muoversi. Anche qui, tuttavia, si moltiplicano piccole esperienze di agricoltura peri-urbana e aziende che resistono e cercano un modo diverso di fare agricoltura.
RDG: Ha ancora senso pensare alla programmazione?
CM: A me sembra che le amministrazioni pubbliche, a Roma in particolare (forse meno in altre città del nord), abbiano rinunciato a un loro ruolo fondamentale, che è proprio quello della programmazione: definire una visione di futuro e costruire percorsi che mirino a realizzarla. Non vi può neanche essere buona gestione senza una programmazione. A Roma manca tuttora un “progetto per la città”, è l’emblema della “città fai-da-te”, è andata avanti come poteva, per conto proprio. A volte penso che se effettivamente lasciassimo agli abitanti la possibilità di portare avanti tante iniziative interessanti e tante “politiche di fatto”, la città andrebbe avanti bene. Ma questo è anche un disastro, perché genera grandi diseguaglianze. Apre alla “città del più forte”, o di chi sa organizzarsi da solo, e lascia indietro i più deboli. Molti colleghi di altri Paesi europei, compresi Francia e Germania, mi hanno cercato per ragionare sulle capacità di auto-organizzazione che Roma esprime, pensandole come orizzonti interessanti nel governo della città. Se questo significa coinvolgimento degli abitanti e valorizzazione delle progettualità e delle risorse sociali, è una cosa interessante. Ma se significa scaricare sugli abitanti i problemi dell’amministrazione, stiamo proprio sbagliando strada. Anche perché si inserisce in una fase storica di progressivo e profondo abbandono del welfare state. In molti casi le forze economiche e di mercato sono più forti di quelle della politica, perciò rendono difficile una programmazione dello sviluppo. Rinunciare alla programmazione, così come a un governo della città pensato in una visione di futuro e coinvolgendo degli abitanti, è un fatto gravissimo. Va opposto un radicale cambiamento di rotta.
RDG: Che fine hanno fatto le promesse istituzionali di urbanistica partecipata?
CM: I quindici anni di Giunte di centro sinistra, dopo l’introduzione dell’elezione diretta del sindaco, a Roma sono stati una stagione estremamente viva e interessante per la partecipazione, forse anche una punta avanzata in Italia e in Europa. Tante realtà locali hanno espresso grandi energie e progettualità. Ma vi è stata anche un’enorme delusione, le aspettative sono state frustrate e la partecipazione poi è sembrata un imbroglio. È forse uno dei motivi per cui il centro sinistra ha perso proprio nelle periferie. Anche Gianni Alemanno, poi, ha sbandierato la partecipazione, ma l’ha usata in senso clientelare. La Giunta di Ignazio Marino non ci credeva, la considerava troppo rischiosa. Quella attuale ne parla tanto ma non sa come farla. La condivisione sui social o sulle reti ne è una lontanissima e distorta parvenza. La partecipazione è una parola nobile e di grande valore. Qui significherebbe davvero ripensare la politica e ne avremmo un gran bisogno. Sarebbe importante riprendere questo percorso, anche affrontando i tanti nodi problematici che l’hanno caratterizzata.
RDG: Dalla partecipazione al protagonismo sociale. Che idea ti sei fatto delle esperienze che hai vissuto o visto nei quartieri?
CM: C’è sempre un brulicare di iniziative sociali, è una delle caratteristiche più forti ed evidenti della nostra città: associazioni locali, culturali, ambientaliste e comitati. Ne troviamo in ogni quartiere. Si tratta di realtà sociali che non fanno solo rivendicazione, hanno spesso molte competenze ed elaborano importanti proposte e progettualità. Però si mettono poco in rete e così rinunciano a una forza politica che a Roma potrebbe essere rilevante. Il protagonismo si esprime anche attraverso i tanti centri sociali, gli orti urbani, le occupazioni a scopo abitativo e i movimenti di lotta per la casa, le occupazioni dei luoghi di produzione culturale, la produzione di servizi locali (palestre, teatri e biblioteche autogestiti), eccetera. Un mondo vasto, attivo e vitale. Un’altra città, di certo più partecipata e forse più efficiente di quella istituzionale, capace di portare avanti politiche importanti: consumo di suolo zero, diffusione locale dei servizi, soluzioni all’emergenza abitativa, sostenibilità ambientale, agricoltura di qualità e a chilometro zero, recupero e riuso delle aree e del patrimonio edilizio dismesso, sviluppo di attività produttive artigianali… Un grandissimo numero di aree verdi sono state prodotte dagli abitanti e autogestite.
RDG: A Roma si parla sempre molto di esperienze auto-organizzate, ne riesci a vedere i limiti e le potenzialità?
CM: Roma è piena di esperienze auto-organizzate, ma si tratta di cose molto diverse tra loro. Si va da comitati locali che prendono in carico la gestione di parchi pubblici (magari con un approccio securitario e attività commerciali per sostenere le spese) a occupazioni a scopo abitativo di edifici pubblici o privati dismessi (e quindi illegali) che fanno battaglie contro la speculazione e politiche per il recupero e il riuso. Ci sono idee di città e di convivenza molto differenti tra loro, c’è una diversità di valori e di cultura politica, ci sono modalità molto diverse di sviluppare i percorsi, in termini, ad esempio, di democraticità dei processi, di inclusività, di apertura ai territori. Le “culture di pubblico” sono molto differenti. Ad esempio, nelle aree ex abusive i Consorzi di auto-recupero seguono prevalentemente (salvo alcuni casi interessanti) un’urbanistica “condominiale” e quindi logiche proprietarie e privatistiche, a differenza delle associazioni locali che invece si preoccupano della dimensione collettiva (parchi, spazi pubblici, biblioteche, eccetera). È vero che le esperienze di auto-organizzazione esprimono spesso pratiche e processi di riappropriazione della città (e quindi di risignificazione dei luoghi) e nascono dal protagonismo sociale ma è vero anche che spesso rischiano di essere sostitutive di amministrazione e servizi pubblici, senza portare un conflitto e un ripensamento delle politiche.
RDG: Possiamo provare a immaginare una fotografia “in movimento” di Roma, cioè a leggere la realtà a partire dagli spostamenti al suo interno e dall’accoglienza di chi vi approda per un certo periodo per poi riprendere il viaggio verso nuove destinazioni?
CM: È una domanda difficile. In realtà, solo da poco sta emergendo il lavoro di giovani ricercatori che si impegnano a conoscere la città. Di fatto mancano studi sistematici su Roma, è difficile darne una rappresentazione. Anch’io mi chiedo spesso se la città si possa dire accogliente, perché a volte sembra accettare tutto, anche le diversità e i fenomeni nuovi che la attraversano, ma forse è molto meno accogliente di quanto sia cinica e indifferente. E poi chi la governa pare non conoscere, o addirittura non accorgersi, delle dinamiche che la attraversano.
RDG: In effetti, molti dicono che Roma sia ingovernabile. Ma intanto, per provare a capirne qualcosa, bisognerebbe andare molto più “sul campo”, vero?
CM: Ne sono assolutamente convinto e l’ho ripetuto in diverse occasioni di incontro con i politici. È il solo modo per conoscere Roma veramente, al di là dei luoghi comuni, per capirne la vita reale. La politica, e anche le istituzioni, hanno abbandonato i territori, ne ignorano i bisogni. E dai territori vengono percepite a distanza siderale, gli abitanti non hanno interlocutori. La politica deve tornare a essere intermediaria tra i territori e i luoghi della decisione. E deve recuperare una capacità, anche culturale, ma legata ai territori, di pensare il futuro. Bisogna stare “sul campo”, però, anche per ricostruire una grande alleanza tra tutte le forze sociali che vivono e sostengono la città, le amministrazioni e i soggetti politici, le forze produttive e gli operatori economici. La situazione è diventata veramente difficile. Nell’“alleanza” bisogna saper valorizzare le iniziative prese dai territori e sostenere quelle più intelligenti, che seguono un’idea di città fondata sulla convivenza tra le diversità, su un’economia sociale e non “avventizia”, sulla produzione di cultura, insomma sui valori che la città può e saprebbe ancora esprimere.
* Marco Calabria e Riccardo Troisi sono della redazione di Comune-Info
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Carlo Cellamare: è docente di Urbanistica presso l’Università La Sapienza di Roma, direttore del Centro Reatino di Ricerche di Ingegneria per la Tutela e la Valorizzazione dell’Ambiente e del Territorio (CRITEVAT) e del Laboratorio di studi urbani Territori dell’abitare. Responsabile scientifico di diverse ricerche a carattere nazionale e internazionale, si occupa del rapporto tra urbanistica e vita quotidiana, tra pratiche sociali e trasformazione urbana. Tra le sue pubblicazioni: Fare città. Pratiche urbane e storie di luoghi (Elèuthera, 2008), Progettualità dell’agire urbano. Processi e pratiche urbane (Carocci, 2011), e la cura del volume Roma città autoprodotta. Ricerca urbana e linguaggi artistici (Manifesto libri, 2014), Fuori Raccordo. Abitare l’altra Roma (Donzelli, 2016).
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Qui l’articolo di Sergio Segio “L’apocalisse e il cambiamento possibile”, da Appunti n. 23, 1/2018
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