by Intervista a cura di a cura di Orsola Casagrande, 15° Rapporto sui diritti globali | 9 Marzo 2018 7:31
La Libia è uno Stato fallito, sostiene il giornalista e inviato in numerosi teatri di guerra Karlos Zurutuza. È un Paese con tre governi (ognuno con i suoi alleati), armi, conflitti tribali e una crisi economica che ha ripercussioni durissime su una popolazione stremata dalla guerra. L’Unione Europea ha deciso di addestrare la Guardia costiera libica in funzione anti-migranti, dimostrando ancora una volta la propria miopia in materia di immigrazione e soprattutto di non avere scrupoli nel cercare di blindare le sue frontiere, disinteressandosi del destino di centinaia di migliaia di vite umane.
Redazione Diritti Globali: Partiamo da una fotografia della Libia di quest’ultimo anno: cosa evidenzieresti in termini di fatti politici e economici in questo Paese?
Karlos Zurutuza: La Libia è uno Stato fallito nel quale esistono tre governi sulla carta e circa 2.000 gruppi armati che sono quelli che davvero comandano sul territorio. Dal 2011 le armi non hanno smesso di arrivare, nonostante l’embargo imposto dall’ONU, ufficialmente ancora in vigore. A settembre 2016, Martin Kobler, l’inviato delle Nazioni Unite per la Libia, ha ricordato in un intervento a Ginevra che ci sono più di 26 milioni di armi in circolazione in un Paese di 6 milioni di persone. Anche se all’estero si considera che la presenza dello Stato Islamico sia uno dei problemi principali del Paese, in realtà è la svalutazione della moneta locale e la mancanza di liquidità ciò che maggiormente preoccupa i libici. Il dinaro libico nel 2011 valeva quanto l’euro, ma oggi si è svalutato anche di 8 volte nel mercato nero, e questo ha lasciato il Paese sull’orlo del crollo finanziario. Di fronte alla mancanza di liquidità si è optato per stampare banconote, azione che ha fatto aumentare l’inflazione e che rende visibile ancora di più la frattura politica in Libia.
Tripoli importa dinari libici stampati nel Regno Unito, mentre Tobruk ricorre alle importazioni che arrivano da Mosca. Tutto ciò succede in un Paese che cerca di sopravvivere degli effetti del sistema di rendita instaurato a suo tempo dal colonnello Muammar Gheddafi.
Al giorno d’oggi, l’85% dei salariati in Libia appartiene al settore pubblico, ma solo il 20% si presenta davvero sul posto di lavoro. Di fatto ci sono legioni di guide turistiche che continuano a ricevere un salario in un Paese dove il turismo è solamente un ricordo del passato. Lo stesso vale con gli 800 funzionari del servizio ferroviario in un Paese, la Libia, che è l’unico Paese del Maghreb a non avere linee ferroviarie.
Questo sistema di rendita era sostenibile quando la Libia esportava il 100% del suo gas e petrolio, però oggi risulta insostenibile a causa della caduta del prezzo del barile e la diminuzione della produzione.
RDG: Potresti farci una piccola mappa dei gruppi politici, armati e non armati, che operano oggi in Libia?
KZ: La maggior parte dei gruppi armati in Libia opera in chiave tribale ed è profondamente radicata nella società libica. In una mappa pubblicata nel 1955, Pierre Rondot, generale delle forze francesi, delineava in dettaglio una rete di alleanze tra le tribù libiche che si potrebbe trasferire, senza cambiare una virgola, alla congiuntura attuale. Gheddafi aveva cercato di gestire poteri esistenti da sempre. Insisteva sul fatto che le tribù non avevano nessun ruolo nel governo, però la verità è che sono sempre state una forza centrale nelle strutture politiche strategiche i cui protagonisti erano i Warfala e i Magharha. Nel contempo le tribù della Cirenaica – la provincia orientale – come i Kargala, Tawajir e Ramla, venivano escluse sistematicamente dall’apparato dello Stato. Oggigiorno la stessa tribù del colonnello, i Gaddafa e altre tribù leali come Warshafana, Warfala, e Awad Suleyman si trovano schierate sotto la protezione del Governo dell’est, quello di Tobruk, che conta sull’appoggio di Arabia Saudita, Russia e Francia, tra gli altri.
Il Governo di Accordo Nazionale (GAN), appoggiato dall’ONU è grandemente indebolito e a malapena riesce a controllare il centro di Tripoli grazie a una conosciuta milizia salafista, della quale ha il controllo. Il terzo Governo è quello del Congresso Nazionale Generale, che contava sul sostegno di Turchia, Qatar e Sudan tra gli altri, ma che oggi sopravvive a Tripoli all’ombra del GAN.
RDG: Nonostante l’instabilità, dovuta in buona parte all’intervento militare occidentale contro la Libia di Gheddafi, l’Unione Europea ha deciso di fare un accordo, l’Operazione Sophia, con le autorità libiche riconosciute dalle Nazioni Unite, per addestrare la Guardia costiera e per far sì che la Libia continui a gestire i centri di detenzione per migranti. Potresti dirci chi sono le autorità libiche che hanno fatto l’accordo con la UE? E com’è la gestione dei centri di detenzione?
KZ: Sophia è il miglior esempio della risposta UE alla cosiddetta “crisi immigrazione”. Alla fine di ottobre 2016, 89 cadetti e ufficiali libici sono stati il primo gruppo a ricevere l’addestramento previsto nel contesto dell’Operazione Sophia, la missione navale congiunta della UE per combattere il traffico di esseri umani e di armi nel Mediterraneo Centrale. Avviata nella primavera del 2015 come un programma con durata di 12 mesi e finanziata con 11,82 milioni di euro, il mandato di Sophia è stato prorogato già due volte (l’ultima a luglio del 2017). La formazione di guardacoste e la collaborazione per il mantenimento dell’embargo sulle armi dell’ONU in Libia sono state le due novità della missione. Ma si tratta di un progetto tanto ambizioso quanto controverso. Un Rapporto commissionato dalla Camera Alta Britannica e pubblicato nel mese di maggio del 2016, assicura che la missione «né contribuisce a bloccare il flusso di migranti, né aiuta a smantellare reti di trafficanti, né a far cessare il lucrativo traffico di persone nel Mediterraneo centrale». Le conclusioni sono ben riassunte nel titolo del documento: «Una sfida impossibile».
L’addestramento dei guardacoste libici è uno dei punti più delicati: numerosi sono gli incidenti con la flotta libica denunciati dalle ONG che partecipano in missione di ricerca e salvataggio nella zona. La tedesca Sea Watch è arrivata a chiedere alla UE di riconsiderare il suo progetto di addestramento della Guardia costiera libica dopo un tragico incidente avvenuto a ottobre 2016: secondo la ONG, una pattuglia libica aveva intercettato una imbarcazione di profughi e i guardacoste hanno picchiato con pali i passeggeri e impedito alla ONG di salvarli. Si calcola che più di 30 persone abbiano perso la vita solo in quell’incidente. Da parte loro, le autorità libiche negano questa versione e accusano a loro volta la ONG di «aver violate le acque territoriali libiche». L’Operazione Sophia vanta un precedente nel 2013, quando la Missione per l’Assistenza di Frontiere della UE (EUBAM) aveva attivato un altro progetto, che includeva anche l’addestramento della Guardia costiera libica. Antti Hartikainen, direttore generale delle frontiere finlandesi e massimo responsabile, in quel momento, della missione EUBAM in Libia, ammette che la mancanza di una direzione centrale nella Marina libica era già un problema in quel momento. «È stato sempre così: più che di una flotta coordinata, parliamo di unità che agiscono in maniera indipendente», mi ha detto l’ufficiale durante un’intervista. Hartikainen non scartava l’idea che individui vincolati al traffico di persone potrebbero in realtà star partecipando all’Operazione Sophia. Nel 2013 un po’ di soldi ancora arrivavano nelle tasche dei libici, per cui questo non li preoccupava. Ma la situazione economica è peggiorata moltissimo negli ultimi tre anni. Il Governo non è in grado di garantire gli stipendi e nemmeno la composizione e provenienza di coloro che costituiscono le Forze di Sicurezza: nessuno sa chi è chi, e questo evidentemente aumenta la possibilità che davvero membri della Guardia costiera libica siano oggi coinvolti in questi traffici. Nei numerosi Rapporti pubblicati nella pagina web dell’Operazione Sophia non si fa nessun riferimento al fattore rivelante che presuppone la mancanza di una direzione centrale nella flotta libica e nemmeno al rischio di infiltrazione nello stesso programma di formazione da parte dei trafficanti. Nonostante ciò, ho avuto accesso a un documento interno e fatto filtrare, che raccoglieva la memoria dell’Operazione Sophia da gennaio a ottobre 2016. Già nell’introduzione si sottolinea l’efficacia del Trattato firmato dalla UE con la Turchia in aprile 2016, per contenere la marea di profughi nel Mediterraneo Orientale. In egual maniera, il documento assicura che la presenza delle imbarcazioni di salvataggio delle ONG nel Mediterraneo contribuisce a un «effetto richiamo» per migranti e profughi. Non è il caso di Sophia, si dice esplicitamente, visto che la missione della UE aveva salvato “solo” un 13% dei profughi totali. Il Rapporto inoltre dice di non aver raccolto “nessuna prova” del fatto che organizzazioni «terroriste» stiano cercando di infiltrarsi nel flusso di migranti e profughi diretti in Europa, anche se afferma che mafie dedicate al contrabbando e al traffico di persone stanno corrompendo le autorità e le milizie in Libia. Tutte queste contraddizioni non sembrano ostacolare lo sviluppo della missione. Il 3 febbraio 2017, Federica Mogherini, Alta Rappresentante della UE per gli affari esteri e politica di sicurezza, ha consegnato a Malta i primi 89 diplomi ai cadetti libici in una cerimonia che ha definito un «momento storico nelle relazioni tra la Libia e la UE». Inoltre, sono stati approvati altri 200 milioni di euro per «ampliare l’addestramento della Guardia costiera libica, dotarla di mezzi di vigilanza adeguati e finanziare il ritorno volontario di migranti che vogliano rientrare nei loro Paesi di origine».
Quanto ai centri di detenzione, diversi di questi dipendono dal ministero degli Interni, ma non c’è controllo su quello che accade lì dentro. Ci sono prove che in alcuni di questi centri si violano gravemente i diritti umani dei migranti, mentre altri hanno una reputazione migliore. Non possiamo dimenticarci che il controllo di tali centri rimane in mano delle milizie e che, molto spesso, cambiano di proprietario seguendo i cambiamenti di un momento congiunturale molto instabile.
RDG: Più in generale come vengono trattati i migranti in Libia?
KZ: In Libia si può dire che lavoro fa un migrante guardando alla sua nazionalità e viceversa. Nello scalino più basso della piramide dei lavoratori stranieri ci sono i subsahariani e i bengalesi, che egemonizzano i settori della pulizia e costruzione. Uno scalino più in alto ci sono gli egiziani, dipendenti normalmente di negozi o cuochi, e i tunisini spinti dal collasso del turismo nel loro Paese, alle reception degli hotel libici. I marocchini superano i tunisini in quanto a salario, svolgendo lavori più sofisticati come operai, carpentieri, saldatori o meccanici di auto. Questo è un fedele ritratto sociale della manodopera straniera in Libia, ma non una foto statica. Un deterioramento nelle relazioni tra il Governo di Tripoli e il Cairo significherà che i bengalesi sostituiranno gli egiziani nelle pizzerie o macellerie. Gli egiziani torneranno al loro Paese o si sposteranno all’est della Libia, visto che il Governo rivale di Tobruk gode dell’appoggio dell’Egitto. Molti migranti cercano di arrivare in Europa affidandosi alle mafie del traffico e sono vittime di abusi atroci o finiscono il viaggio morendo nel Mediterraneo. Ma ci sono anche molti migranti che scartano l’idea di viaggiare e vanno a lavorare, in Libia, tutti i giorni. E lavorano sotto gli occhi di tutti. Nessuno li arresta, nessuno li maltratta… ma queste storie non sono raccolte da nessun Rapporto redatto dall’altra parte del Mediterraneo. Non sono raccontate da nessuna ONG, think tank, stampa generalista, e nemmeno da istituzioni come la Commissione Europea, per i quali «tutti i migranti irregolari, profughi o richiedenti asilo, sono in pericolo di essere multati, detenuti o espulsi».
RDG: Che guadagna la Libia da questo accordo con la UE?
KZ: Bruxelles sta cercando di costruire una barriera nel Mediterraneo, come quelle di Ceuta o Melilla, e farà qualunque cosa pur di riuscirci. Se è stata capace di utilizzare milizie salafite per garantire la sicurezza del “suo” Governo a Tripoli, non è azzardato pensare che finirà con dare potere, armi e equipaggiamenti a presunti guardacoste, molti dei quali lavorano, in realtà, in connivenza con le mafie come già rivelano documenti interni della stessa UE. Data l’atomizzazione della Libia, il risultato finale sarà quello di uno scenario all’afghana in cui i signori della guerra si contenderanno il controllo del traffico per assicurarsi i suoi benefici. Se questo è il prezzo da pagare per contenere il flusso migratorio, Bruxelles non metterà nessun bastone tra le ruote dei vari attori libici.
RDG: Dopo la militarizzazione delle frontiere e l’accordo con la Turchia, è vero che i profughi provenienti soprattutto dalla Siria hanno cominciato a utilizzare nuovamente la rotta che parte dalla Libia per arrivare in Italia?
KZ: All’inizio, con la riduzione oggettiva di arrivi registrata dopo la firma dell’accordo, si è detto che la nuova rotta era appunto quella che partiva dalla Libia. Ma in realtà sono molto pochi i siriani, iracheni o yemeniti che cercano di arrivare in Europa partendo dalla Libia. Da qui parte un flusso composto soprattutto da cittadini subsahariani.
RDG: Hai descritto il trattamento riservato ai migranti economici che vivono in Libia. Come sono trattati invece i profughi, sia quelli interni che quelli provenienti da altri Paesi?
KZ: Secondo le cifre fornita dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, nel 2016 c’erano circa un milione di rifugiati e migranti e circa 400 mila sfollati in Libia. Questi ultimi languono in campi profughi nelle principali città libiche, come nel caso dei libici di Tawargha. Durante la guerra del 2011, Gheddafi ha utilizzato questa località per lanciare il suo assedio a Misurata, e la sete di vendetta degli abitanti di Misurata ha trasformato Tawargha in una città fantasma. Gli ultimi sfollati sono stati quelli di Sirte, bastione dello Stato Islamico in Libia fino all’autunno del 2016. Molti dei suoi antichi residenti non possono rientrare nelle loro case perché la città è un cumulo di macerie, ma non sono ben accetti nemmeno in località come Tripoli o Misurata.
RDG: Non è chiaro quale sia il ruolo dei vari Paesi stranieri oggi in Libia. Cerchiamo di dipanare un po’ questa nebbia… Regno Unito, Francia, Russia, Stati Uniti.
KZ: È difficile in effetti capire bene che posizione mantiene ciascuno. Se la Russia appoggia apertamente il Governo di Tobruk, Washington non sembra decidersi per nessuno, perché sa che la situazione è estremamente volatile e l’equilibrio di forze molto precario. I tuoi alleati di oggi possono essere gli sconfitti della guerra, o i tuoi nemici di domani. L’Italia punta su Tripoli perché i suoi interessi energetici sono nella regione della Tripolitania. La Francia, a sua volta, ha dimostrato una posizione ambigua verso Tripoli e Tobruk. E lo stesso possiamo dire del Regno Unito fino a questo momento.
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Karol Zurutuza: nato a Donostia nel 1971. È stato corrispondente e inviato speciale in Libia, Iran, Iraq, Kurdistan, Afghanistan. Collabora con riviste e quotidiani, tra i quali “Gara”, “Vice News”, “IPS”, “M’Sur”, “Al Jazeera” e “Deutsche Welle”. Nel 2009 ha ricevuto il premio Nawab Bugti per il lavoro sul campo svolto in Baluchistan e nel 2012 i premi Argia e Rikardo Arregi per il suo lavoro sulla crisi in Libia. È autore del libro Tripoli-Kabul (Gaumin, 2012).
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IL 15° RAPPORTO SUI DIRITTI GLOBALI PUO’ ESSERE ACQUISTATO O ORDINATO IN LIBRERIA, OPPURE DIRETTAMENTE ONLINE DALL’EDITORE[1]
Riportare i diritti nel lavoro. Leggi qui la prefazione di Susanna Camusso[3] al 15° Rapporto
Il vecchio che avanza. Leggi e scarica qui l’introduzione di Sergio Segio[4] al 15° Rapporto
La presentazione alla CGIL di Roma[5]
Qui la registrazione integrale della presentazione[6] alla CGIL di Roma del 27 novembre 2017
Qui le interviste[7] a Sergio Segio, Patrizio Gonnella, Marco De Ponte, Francesco Martone
Qui notizie e lanci dell’ANSA[8] sulla presentazione del 15° Rapporto
Qui il post di Comune-Info[9]
Qui si può ascoltare il servizio di Radio Articolo1 curato da Simona Ciaramitaro[10]
Qui un articolo sul Rapporto, a pag. 4 di ARCI-Report n. 37[11]
Qui un articolo sul Rapporto, da pag. 13 di Sinistra Sindacale n. 21[12]
Qui la registrazione di Radio Radicale della presentazione del 15° Rapporto a Torino, il 31 gennaio 2018[13]
Qui un’intervista video a Sergio Segio e Susanna Ronconi sui temi del nuovo Rapporto[14]
Qui l’articolo di Sergio Segio “L’apocalisse e il cambiamento possibile”, da Appunti n. 23, 1/2018[15]
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