Intervista a Morena Piccinini. Con i diritti messi sul mercato, sul lavoro ci si ammala e si muore di più

by Intervista a cura di a cura di Massimo Franchi, 15° Rapporto sui diritti globali | 6 Marzo 2018 7:19

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Il 2017 sta registrando in Italia un’inversione di tendenza rispetto a un tema molto delicato: gli infortuni sul lavoro, specie rispetto al numero dei morti. Dopo anni di calo siamo davanti a un segno “più” che colpisce soprattutto perché i media da anni hanno ridotto fortemente l’attenzione al fenomeno. Per riaccendere una luce ne abbiamo parlato con Morena Piccinini, presidente dell’INCA CGIL, l’Istituto Nazionale Confederale di Assistenza. Che denuncia i pochi controlli e il peggioramento delle condizioni di lavoro create dal Jobs act.

 

Rapporto Diritti Globali: L’INCA, il patronato della CGIL, da anni denuncia la tragedia dei troppi incidenti e morti sul lavoro in Italia. Nel 2017 i dati parlano di una recrudescenza del fenomeno. Dal vostro punto di osservazione privilegiato quali sono le ragioni?

Morena Piccinini: A dire il vero, l’INAIL negli ultimi anni ha sottolineato soprattutto l’andamento decrescente del fenomeno, attribuendo il risultato positivo a un sostanziale miglioramento dell’azione di contrasto avvenuto attraverso la prevenzione e i controlli effettuati sulle aziende. Soltanto nell’ultima rilevazione trimestrale, diffusa prima della pausa estiva, ha dovuto ammettere che gli infortuni sono aumentati, con un più 5,9 per cento, ma ancora una volta, per giustificare questa tendenza ha sottolineato l’incidenza dei decessi provocati dai fenomeni sismici del centro Italia. Quasi a dire che tutto sommato le cose non sono cambiate.

 

RDG: Se, come sostengono tutti gli istituti di ricerca, la crisi economica ha inciso sul peggioramento delle condizioni di lavoro in tutti i comparti come non può aver avuto anche effetti sulla sicurezza sul lavoro?

MP: La crisi economica, dalla quale facciamo fatica a uscire, accompagnata da politiche industriali inadeguate ad aggredirla, ha contribuito pesantemente ad alimentare l’idea che la prevenzione e la sicurezza nei posti di lavoro fossero un costo insostenibile per le imprese. Da ciò sono scaturite diverse conseguenze: poca attenzione da parte delle aziende sulle condizioni di lavoro; una revisione al ribasso delle sanzioni in capo agli imprenditori; il ricorso a contratti di lavoro precario, senza tutele. Infine, una legislazione del lavoro, a cominciare dal Jobs act, che ha amplificato le libertà di licenziamento, anche quando c’è di mezzo una malattia professionale o un infortunio. Le cosiddette “inidoneità” alla mansione sono diventate le decisioni privilegiate delle aziende per liberarsi di manodopera, diventata “poco produttiva” anche a causa di un incidente o di una malattia riconosciuti come di origine professionale dallo stesso INAIL.

A questo si aggiunga che il moltiplicarsi di tante forme contrattuali ha reso ancora più macroscopica la già marginale capacità istituzionale di controllare come si lavora oltre i cancelli di una fabbrica o di un capannone. La stessa azione ispettiva dell’INAIL si ferma mediamente a poco più di 20 mila visite l’anno, su un bacino di 3 milioni e 760 mila posizioni assicurative registrate dall’Istituto stesso. E quando le ispezioni si fanno, la realtà viene fuori. Nell’ultimo Rapporto, presentato a luglio di quest’anno, l’INAIL segnala che su 20.876 aziende controllate nel 2016 (il 73 per cento del terziario e il 23 per cento dell’industria), l’87,6 per cento è risultato irregolare; 57.790 i lavoratori regolarizzati e 5.007 quelli scovati “in nero”.

 

RDG: I dati sugli infortuni spettano all’INAIL. Spesso però assistiamo a polemiche sui criteri dei conteggi, sulla poca completezza dei dati e sulla metodologia di classificazione. Qualcosa va cambiato?

MP: Più volte abbiamo sollecitato l’INAIL a rendere i dati maggiormente aderenti alla realtà, fatta di un numero crescente di eventi infortunistici e di malattie professionali che sfuggono alle statistiche ufficiali. Complice il fatto che con l’estendersi della precarietà del lavoro, molti lavoratori non denunciano e si rassegnano a nascondere gli incidenti per paura di perdere quel poco che hanno. A questo proposito basti ricordare cosa è successo con i voucher: gli imprenditori pubblici e privati facevano incetta dei “buoni” senza utilizzarli, per poi tirarli fuori quando un incidente grave costringeva l’impresa a farne uso, al solo scopo di “approfittare” della tutela INAIL. Con questo meccanismo perverso sono stati messi sotto il tappeto numerosi infortuni e malattie professionali.

A questo si aggiunga anche che il sistema di tutela INAIL, così come è strutturato, non tiene conto neppure dei tanti lavoratori non assicurati (vigili del fuoco, comparto sicurezza, parzialmente anche gli statali, commercianti e libero professionisti), per i quali gli incidenti e le malattie professionali non vengono rilevati statisticamente dall’Istituto. Faccio notare infine che, dal nostro osservatorio, la percentuale di riconoscimento del nesso causale da parte di INAIL, per denunce avviate da noi pur con tutta l’attenzione e la documentazione sanitaria necessaria, è estremamente bassa, circa il 34 per cento.

 

RGD: La CGIL ha vinto la sua battaglia sul ritorno alla responsabilità solidale negli appalti: una misura che potrebbe avere effetti positivi anche rispetto alle condizioni di sicurezza nei cantieri, settore dove appalti e subappalti sono più usati.

MP: Abbiamo vinto una battaglia, ma non la guerra. Nei cantieri, non soltanto edili, il sistema degli appalti è una pratica diffusissima. Aver ripristinato il principio della responsabilità solidale delle imprese è un passo decisivo che consente di individuare meglio le responsabilità datoriali in materia di infortuni e malattie professionali, ma anche di effettuare un maggiore controllo sulle condizioni di lavoro e riaffermare il valore del rispetto delle norme sulla sicurezza e sulla prevenzione. Ciò consente alle imprese di essere più competitive sul mercato e più virtuose sotto il profilo del rispetto delle norme su sicurezza e prevenzione, e ai lavoratori di vedersi riconoscere il diritto alla salute, troppo spesso calpestato nel nome del profitto.

 

RGD: L’INCA, come tutti i patronati, dal 2014 in poi ha subito le politiche dei vari governi che hanno ridotto i campi di intervento e le sovvenzioni. Nel 2017 avete sottoscritto una Convenzione con il ministero del Lavoro per cercare di non scaricare l’aumento dei costi a carico degli utenti più deboli. Una strada che sta dando frutti?

MP: In realtà, i tagli al Fondo Patronati sono stati inflitti a partire dal 2010, con una costanza davvero drammatica per noi che li abbiamo subiti. A questo, però, non ha corrisposto una riduzione dei campi di intervento. Anzi: i governi che si sono succeduti in tutti questi anni hanno costretto gli enti di patronato a farsi carico delle conseguenze di ogni provvedimento legislativo che implicasse un adempimento da parte dei cittadini, per i quali siamo diventati l’unico prezioso presidio sociale per il riconoscimento di ogni prestazione legata al welfare. Per esodati, disoccupati e per tanti pensionati o pensionandi rappresentiamo oramai una via di accesso ai diritti previdenziali e socio assistenziali. E non è finita: si pensi solo a ciò che è scritto nei recenti decreti su Ape social e Ape volontario, dove gli enti di patronato figurano tra gli “intermediari” a cui si può rivolgere un qualunque cittadino per ogni adempimento. Il che significa altre incombenze e responsabilità, anche inedite, ben più complesse rispetto a quelle esercitate in passato. Peccato che su tutti questi provvedimenti il governo non preveda mai una compensazione economica ai patronati per il lavoro sociale che svolgono gratuitamente.

In sostanza, i Patronati vengono chiamati in causa per ambiti di intervento ben più estesi e contemporaneamente si sono ridotte le risorse economiche a loro destinate. Dietro questa – solo apparente – contraddizione, si vuole affermare la logica del “mercato dei diritti”, a cui si può accedere in ragione delle capacità economiche individuali.

Ciò è confermato anche dall’atteggiamento assunto da esponenti politici e istituzionali che, negli ultimi anni, hanno tentato di premere l’accelerazione per procedere, nel nome della semplificazione, a una “disintermediazione” del rapporto tra cittadino e pubbliche amministrazioni, invocando la cancellazione di tutti i corpi intermedi, compresi i sindacati e i patronati. La convenzione con il ministero è il risultato di una scelta di INCA, che rifiuta la logica del “mercato dei diritti” e vuole continuare a esercitare il proprio ruolo facilitando anche, e sottolineo anche, l’adesione alla CGIL.

 

RDG: Una delle critiche che si muove nei confronti dei sindacati è quella di – per questioni di bilancio – avvicinarsi sempre più a sindacati dei servizi, che puntano più a ottenere tessere offrendo servizi rispetto alla partecipazione degli iscritti. Cosa fate come INCA per favorire la partecipazione degli iscritti alla CGIL?

MP: Non c’è nessuna ragione di bilancio nella scelta di offrire servizi. Voglio solo ricordare che il sindacato ha più di 100 anni di storia alle spalle e non ha mai trascurato l’attività di tutela individuale. È nel suo DNA. A dimostrarlo soprattutto i circa 5 milioni di persone che ogni anno si rivolgono al nostro patronato e anche le numerose sentenze ottenute negli anni, che hanno aiutato a migliorare il quadro legislativo in materia di previdenza, infortuni, malattie professionali e immigrazione. La convenzione con il ministero del Lavoro sottoscritta recentemente è coerente con la storia del movimento sindacale.

Noi continueremo a garantire i nostri servizi a tutti, senza lasciare indietro nessuno, ma allo stesso tempo chiediamo un contributo volontario agli altri che decidono di non tesserarsi. La nostra missione originaria resta quella di assicurare a ognuno la possibilità di poter esercitare un diritto, sia esso previdenziale o socioassistenziale.

È vero che molte persone identificano il valore del sindacato e i suoi ideali anche attraverso l’attività di tutela; e noi siamo fieri di ottenere l’adesione alla CGIL attraverso il nostro lavoro. Il concetto di “servizi” non va assolutamente banalizzato né tanto meno visto solo in chiave burocratica, perché è proprio attraverso i cosiddetti “servizi” che si traduce in rapporto individuale quella che è la strategia della CGIL; tant’è che non ci limitiamo mai soltanto a informare gli utenti su cosa prevedono le leggi, ma anche a sottolineare il fatto che noi e la CGIL siamo impegnati a contrattare e a cambiare le norme sbagliate (e quella dei voucher è solo un esempio) e a conquistare nuovi diritti.

 

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Morena Piccinini: laureata in Diritto del lavoro presso l’Università di Modena, inizia a collaborare con la CGIL di Modena come volontaria negli anni Settanta. Nel 1981 inizia l’attività sindacale presso la Federbraccianti modenese. Nel 1988 è nominata direttrice dell’INCA, il patronato della CGIL. Nel 1991 entra a far parte della segreteria della CGIL di Modena con competenze sulle politiche sociali. Nel 1996 è eletta segretario generale della struttura modenese della CGIL. Nel maggio 2002 entra a far parte della segreteria confederale della CGIL, dove ha la responsabilità delle politiche della previdenza, dei nuovi diritti e della promozione della contrattazione sociale e territoriale. Riconfermata in segreteria confederale nel giugno 2008, aggiunge l’incarico di responsabile delle politiche della salute e dell’assistenza, del Terzo settore e volontariato, dello sport e tempo libero. Dal 2010 è presidente nazionale dell’INCA.

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Qui un articolo sul Rapporto, a pag. 4 di ARCI-Report n. 37[11]

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Qui la registrazione di Radio Radicale della presentazione del 15° Rapporto a Torino, il 31 gennaio 2018[13]

Qui un’intervista video a Sergio Segio e Susanna Ronconi sui temi del nuovo Rapporto[14]

Qui l’articolo di Sergio Segio “L’apocalisse e il cambiamento possibile”, da Appunti n. 23, 1/2018[15]

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