Vicenza si solleva, dal NO Dal Molin al sostegno al popolo kurdo

Vicenza si solleva, dal NO Dal Molin al sostegno al popolo kurdo

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Anche se sostanzialmente fu una sconfitta, la lotta del popolo vicentino contro la realizzazione dell’ennesima base statunitense, il movimento “NO Dal Molin”, non è stata invano.

Oltre a un degno passaggio di testimone con le lotte degli anni sessanta (vedi 19 aprile 1968 a Valdagno) e degli anni settanta (vedi la “breve estate” dell’Autonomia che ha incendiato le praterie dell’Alto Vicentino) ha rappresentato la prosecuzione, con altri mezzi, di quella Resistenza antifascista per cui la “Città del Palladio”  è stata insignita di medaglia d’oro. L’altra medaglia, la prima, era per l’insurrezione del 1848.

Nelle manifestazioni contro il Dal Molin (legittimo definirle “oceaniche”, talvolta) si riversarono le energie e le esperienze sia dei soggetti e dei collettivi legati ai centri sociali (Ya Basta!), sia di alcune formazioni “classiche” (per quanto ridotte ai minimi storici) come Rifondazione (erede a Vicenza sia del PCI che di DP) o il PDAC (Quarta Internazionale) i cui militanti costituirono il Comitato di Vicenza Est. Oltre, naturalmente, ai pacifisti, ai Cristiani per la Pace, alle Donne, agli ambientalisti…ai cani sciolti.

Anche recentemente, 26 gennaio 2018, abbiamo potuto toccare con mano che la lotta continua. Continua nonostante decenni di Democrazia cristiana (Rumor e suoi eredi) e poi anni di fascioleghismo (v. Hulwek), nonostante la presenza di una rampante (leggi: aggressiva, impietosa) Confindustria ai primi posti nella classifica nazionale (la seconda in Italia, credo, sia per profitti che per devastazioni ambientali).

 

Un passo indietro.

E’ ormai arcinoto che da decenni il Veneto in generale e Vicenza in particolare forniscono lo scenario ottimale per esercitazioni militari e repressive: un grande laboratorio a cielo aperto.

Già in passato, anni novanta, si ipotizzava sulla presenza di soldati turchi (in particolare piloti), magari proprio in coincidenza con fasi di  recrudescenza repressiva nei confronti dell’opposizione popolare e di quella curda in particolare.

Agli occhi attenti e vigili dei Centri Sociali del Nord Est non era quindi passata inosservata la presenza di militari turchi ai tre giorni di “addestramento sui flussi migratori” presso la sede della Gendarmeria europea. Ufficialmente in qualità di “osservatori”. Un segnale preoccupante, quantomeno, nei giorni in cui l’esercito e l’aviazione di Ankara stavano (e stanno) massacrando civili inermi nel cantone curdo di Afrin nel nord della Siria. Così come due anni fa avevano fatto terra bruciata delle città curde del Bakur (la regione curda sottoposta all’amministrazione turca) collezionando una lunga lista di violazioni dei Diritti umani nei confronti della popolazione.

 

E i giovani militanti non sono rimasti a guardare.

Questo il comunicato diffuso la sera stessa del 26 gennaio 2018 in merito alla loro iniziativa:

“La Jendarma Turca, responsabile di uccisioni indiscriminate, torture e rappresaglie contro i civili nel Kurdistan Bakur è tra gli osservatori internazionali della Gendarmeria Europea (Vicenza, Caserma Chinotto), dove oggi   termina una tre giorni di addestramento sui contenimenti dei flussi migratori. Un centinaio di attivisti di dei centri sociali del nord-est e di Ya Basta Edi Bese hanno, questa sera, sanzionato dal basso la sede della Gendarmeria Europea. Nel giorno dell’anniversario della liberazione di Kobane si è voluta manifestare la nostra solidarietà attiva con il Kurdistan che resiste! Defend Afrin! Erdogan Terrorist!”

 

Va anche detto che nel vicentino i precedenti non mancavano. Basti ricordare l’inquietante voce che nel gennaio 1997 circolava insistentemente alla caserma Ederle di Vicenza (Nato). Si parlava della tragica morte di un pilota turco autore di qualche piccolo furto all’interno della caserma stessa, poco prima di Natale. Colto sul fatto, era stato immediatamente rispedito in Turchia e qui sarebbe stato addirittura fucilato. Non risulta ci sia mai stata una conferma ufficiale, ma la vicenda comunque forniva un’ulteriore testimonianza sulle violazioni dei diritti umani da parte della Turchia. Ma quella volta c’era anche di più. Indirettamente confermava quanto si sospettava da tempo: nelle basi Nato in territorio italiano – da Ghedi all’aeroporto “Dal Molin” – i piloti turchi prendevano lezioni sull’uso di velivoli, in particolare di elicotteri. Dello stesso tipo (ad esempio gli Apaches) di quelli utilizzati nel Kurdistan “turco”  (Bakur) per distruggere villaggi e accampamenti curdi.

Per analogia va ricordato anche un altro episodio, risalente a una decina di anni prima, anche se in questo caso si trattava di militari iracheni e non turchi.

Lo spettacolare incidente mortale di Fongara – nell’Alto Vicentino presso Recoaro – portò a conoscenza dell’opinione pubblica il fatto che i piloti iracheni, all’epoca  impegnati nella guerra con l’Iran (ma anche costantemente contro i curdi) si addestravano in Italia con il supporto logistico delle basi Nato. L’elicottero in questione finì contro la parete di una montagna a causa della nebbia e l’intero equipaggio, tutti militari iracheni, perì nell’incidente. Allora si disse che erano diretti in qualche fabbrica di elicotteri nel “nord-ovest” per installare nuovi marchingegni elettronici e impratichirsi nell’uso. Erano arrivati dall’Iraq facendo tappa nelle varie basi Nato dislocate lungo il percorso.

Nel 1997, “grazie” all’incauto pilota e alla severità dell’esercito turco, diventava lecito sospettare che sui velivoli Apache e Shinook (quelli che all’epoca sorvolavano quasi quotidianamente anche il quartiere di San Pio X) si stessero esercitando i piloti che poi avrebbero bombato le popolazioni curde.

Dalla spettacolare denuncia operata il 26 gennaio dai militanti dei Centri sociali emerge anche una considerazione: il fatto che la Turchia sia legata da una formale alleanza militare all’Italia e agli altri paesi della Nato non può costituire un alibi per tollerare complicità e connivenza con l’attuale politica repressiva (e nei confronti dei curdi anche genocida) del regime di Erdogan.

 



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1 comment

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  1. Gianni Sartori
    Gianni Sartori 24 Luglio, 2018, 22:13

    DIFESA DELLA TERRA E AUTODETERMINAZIONE IN KURDISTAN
    (Gianni Sartori)

    Kurdistan – Turchia: quello che aveva tutti i requisiti per tradursi in un autentico “processo di pace”, analogo a quanto avvenuto in Sudafrica e in Irlanda (per quanto – con il senno di poi – con risultati in parte deludenti), è da considerarsi praticamente fallito.
    La colpa? Principalmente dello Stato (quello turco ovviamente, per ora il Kurdistan è e rimane “nazione senza Stato”) che ha sostanzialmente mancato in tutte le sue promesse.
    Questa – sembrerebbe di capire al di là di ogni eufemismo – è anche l’opinione del presidente dell’Associazione turca dei diritti dell’uomo (IHD), Ozturk Turkdogan (vedi una recente intervista su Le Corrier).
    Invece di raccogliere il ramoscello d’ulivo offerto da Ocalan e dal movimento di liberazione curdo, il governo di Ankara ha ripreso, brutalmente, le operazioni militari contro la popolazione curda. Stando ai dati forniti da IHD sarebbero 353 i civili (quelli finora accertati, beninteso) morti ammazzati nei soli primi tre mesi del 2018 (e 246 i feriti). Il numero dei desplazados (profughi interni) si aggira sul mezzo milione. Come se non bastasse, migliaia di ettari di foresta vengono dati alle fiamme e così molte zone agricole. Interi quartieri – talvolta intere città – sono stati bombardati, al punto da demolirli quasi completamente. Con particolare ostinazione contro il centro storico di Diyarbakir. In tale caso appare evidente quale fosse il valore simbolico dell’opera di distruzione (un po’ come la distruzione di Gernika da parte dei franchisti – con aerei italiani e tedeschi – nell’aprile 1937). La pratica – già di per sé ignobile – di incendiare le foreste curde (vuoi come contro-insurrezione, vuoi “semplicemente” per allontanare la popolazione autoctona) non è certo una novità per lo stato turco. E’ operativa almeno dal 1925, in coincidenza con la ribellione di Sheik Said. Proseguita durante il periodo passato alla Storia come il “genocidio di di Dersim” e il “piano di riforma orientale”.
    Dagli anni novanta a oggi tale sistematico ecocidio è andato ulteriormente amplificandosi, diventando una pratica che non appare esagerato definire pressoché quotidiana. In particolare nel periodo estivo, quando gli incendi risultano più devastanti per ovvie ragioni climatiche. Recentemente da Lice a Genc, da Amed a Bingol per proseguire in Cudi, Gabar, Herekol, Besta e Sirnak. I soldati turchi appiccano intenzionalmente, deliberatamente e – ca va sans dire – impunemente il fuoco (anche per creare il vuoto – per maggior sicurezza, la loro ovviamente – attorno alle basi militari). E se l’habitat va letteralmente in fumo, pazienza!
    Un esponente della Piattaforma per la difesa dell’ambiente di Hewsel ha spiegato che “come ogni estate le foreste bruciano, sia in Turchia che in Kurdistan”. Ma in Kurdistan agirebbe anche un altro motivo “l’apertura di zone estrattive a vantaggio dell’Ovest”. O anche “la realizzazione di futuri centri turistici (quando il fumo si sarà completamente diradato, si presume nda) per realizzare ulteriori profitti”.
    Proprio come i baschi all’epoca della Guerra civile spagnola, i curdi non sono rimasti a guardare. La Resistenza in Bakur si è concretizzata – a partire dall’estate 2015 – dichiarando e mettendo in pratica (per quanto umanamente possibile in tale contesto) l’autonomia amministrativa di città e villaggi.
    In pratica: il Confederalismo democratico, l’aspirazione profonda – e strategica – di gran parte del popolo curdo. Ovviamente non stavano improvvisando. Risale al 2007 la costituzione di una prima struttura politica (denominata DTK , ossia Congresso per una società democratica) formata da movimenti sociali, comitati, amministrazioni comunali, sindacati, associazioni…
    Nei comuni dove era stata avviata tale pratica di democrazia diretta (inevitabili i confronti con le collettivizzazioni in Aragona e Paisos Catalans nel 1936-1937 e il riferimento al municipalismo libertario) ai cittadini era affidata direttamente la gestione della cosa pubblica, nella prospettiva della costruzione di una società affrancata dal sistema patriarcale, praticando un’economia di solidarietà e rispettosa dell’ambiente naturale.
    In quanto, come sostiene l’associazione MEH (Movimento ecologista di Mesopotamia) “la lotta per la salvaguardia della natura è parte integrante della lotta per una società democratica, liberata e di emancipazione”.
    Ma – tornando alle operazioni militari intraprese dallo stato turco – quale potrebbe essere il progetto finale di questa vera e propria tattica militare applicata da Ankara? Forse – azzardo – spopolare, svuotare totalmente questi territori della popolazione indigena (curda) e – dopo le macerie, il sangue e le rovine – procedere alla ricostruzione per rivendere le aree curde a ricchi investitori. Previo allontanamento della popolazione, talvolta impossibilitata – letteralmente – anche a respirare per il fumo degli incendi.
    E se questa non è “pulizia etnica” – anche attraverso la desertificazione dei territori – ditemi voi cos’altro sarebbe…
    Gianni Sartori

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