by Marco Boccitto | 27 Febbraio 2018 10:05
Disperazione e rabbia tra i parenti
Dopo giorni di cifre sparate a casaccio e toni evasivi, l’amara verità è venuta a galla. Per ammissione delle stesse autorità nigeriane sono ben 110 le ragazze che i miliziani di Boko Haram hanno prelevato con la forza da una scuola di Dapchi, nello stato di Yobe lo scorso 19 febbraio. Frequentavano il locale Istituto tecnico femminile statale e questo le rendeva un bersaglio “naturale” dell’organizzazione jihadista, che dal 2009 si stima abbia causato negli stati del nord est la morte di oltre 20 mila persone. Spedendo kamikaze contro mercati e stazioni dei bus, occupando interi villaggi o, come in questo caso, che ricorda molto da vicino la vicenda delle oltre 200 ragazze rapite a Chibok nel 2014, e che il gruppo ha per così dire nel dna, attaccando gli istituti scolastici di tipo occidentale (boko) perché secondo loro contrari alla religione islamica (haram).
La scuola è rimasta deserta per tutta la settimana perché nessuna delle ragazze scampate al raid né tantomeno le poche che hanno ritrovato la libertà nell’arco di poche ore, avevano intenzione di tornarci. Troppo forte lo choc. Ieri le autorità locali ne hanno deciso ufficialmente la chiusura fino a data da destinarsi. Tra i parenti delle ragazze “disperse” e gli abitanti di Dapchi disperazione e rabbia crescono in egual misura.
Di «disastro nazionale» parla il presidente Muhammadu Buhari, costretto a rimangiarsi i recenti proclami dell’esercito sulla definitiva sconfitta militare di Boko Haram. Smentiti da una sequela di attentati e dal raid di lunedì scorso. Familiari e opinione pubblica chiedono ai militari di agire in fretta per riportare a casa le ragazze prima che sia tardi. Tanto più nelle ore in cui emergono i dettagli della trattativa governo-jihadisti che ha portato alla liberazione di un gruppo di geologi impegnati in prospezioni petrolifere nell’area del Lago Ciad e di alcune poliziotte.
FONTE: Marco Boccitto, IL MANIFESTO[1]
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