Riforma carceraria, il tempo per salvarla c’è. Il coraggio manca
La legge penitenziaria italiana è di oltre quattro decenni fa, parla di un carcere e di un mondo che non esistono più. La determinazione dimostrata dal Governo negli ultimi due anni e mezzo nel volerla riformare è apparsa come la cosa più ovvia, necessaria e ragionevole che si potesse immaginare. Due anni e mezzo nei quali si sono profuse energie a dismisura, prima in quegli Stati generali dell’esecuzione penale che hanno coinvolto circa 200 operatori della giustizia ed esperti, poi con le Commissioni ministeriali appositamente nominate dal ministro Orlando. E adesso cosa succede?
A un passo dall’approvazione della riforma, tutto rischia di saltare. I tempi, come capita, si sono dilatati. Le elezioni, oggi troppo vicine, rischiano di vedere assecondate paure populiste contrarie a quella apertura del modello di pena – ampliamento delle misure alternative, potenziamento delle opportunità di lavoro, maggiori contatti tra dentro e fuori – cui le nuove norme volevano tendere.
Nel giugno scorso il Governo ha ricevuto una delega parlamentare per riscrivere l’ordinamento penitenziario secondo alcuni criteri direttivi. Il solo decreto delegato a oggi uscito dal Consiglio dei ministri è stato trasmesso alle Commissioni Giustizia delle due Camere che, come previsto dalla legge, hanno espresso il loro parere, chiedendo alcune modifiche. Il Governo può a questo punto dare il via libera definitivo al testo. Se tuttavia non vorrà conformarsi al parere parlamentare, non vincolante, potrà spiegare il perché rimandando indietro le proprie considerazioni. Le Commissioni avranno allora altri dieci giorni di tempo per dire la loro. Dopo quella data, il Governo potrà comunque seguire la propria strada.
Il punto nodale riguarda la riforma dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario (che vieta l’accesso ai benefici per alcune categorie di reato), dove dal Senato è uscito un parere fortemente restrittivo. Introdotto all’inizio degli anni ’90 nel contesto della lotta alla criminalità organizzata, il 4 bis ha visto nel tempo aumentare i reati ai quali si applica. Non solo reati di tipo associativo, ma anche reati gravi che possono tuttavia essere commessi individualmente. Le due categorie di reato non sono evidentemente omogenee e gli strumenti che l’istituzione deve mettere in campo per combattere associazioni criminali capaci di costituire un autentico contropotere sono diversi da altri strumenti di contrasto che pure il codice penale offre. Non a caso esiste un procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, con poteri legati a reati intrinsecamente associativi.
Ora: la delega parlamentare, nell’escludere esplicitamente dalle possibilità di riforma «le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale», mirava a riportare il 4 bis alle sue originarie intenzioni. E ci pare che l’articolato uscito dal Consiglio dei ministri, criticato dalla Commissione Giustizia del Senato, abbia raccolto correttamente il senso della delega (che noi avremmo peraltro sperato più ampia). La preclusione automatica per l’accesso ai benefici viene limitata ai reati associativi e a qualche altro reato gravissimo, mentre per gli altri si torna a rimandare alla valutazione del magistrato. Se lo scopo è la reintegrazione sociale, un percorso penitenziario individualizzato va garantito nella maniera più vasta possibile. Non avere il coraggio di affermarlo significherebbe tradire interamente lo spirito degli Stati generali.
È necessario che il Cdm rimandi al più presto al Parlamento le proprie considerazioni, senza fare passi indietro. Per non perdere un’occasione storica, bisogna approvare non solo questo decreto ma anche altre norme relative ai punti di delega a oggi non esercitati (uno tra tutti: norme specifiche per le carceri minorili). Se ci si sbriga, gli spazi tecnici per farlo ci sono. Ma non ancora per molto.
FONTE: Susanna Marietti *, IL MANIFESTO
*Coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone
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