by Sebastiano Canetta | 10 Febbraio 2018 11:23
BERLINO. Colpito dalla rivolta seriale di deputati, delegati e della base e affondato sotto i colpi dell’attuale ministro degli esteri, che ha digerito malissimo la sua mancata promessa, ieri Martin Schulz è stato costretto a rinunciare a sedersi sulla poltrona da lui personalmente trattata al negoziato con Angela Merkel: il suo salvagente politico.
L’annuncio del leader Spd in un tweet compulsato nel tentativo di riportare la calma nel partito più che agitato dalla sua brama verso l’alto incarico: un posto che lo metterebbe al sicuro fino al 2021 e lo salverebbe dall’impiccio di risollevare i socialdemocratici dal minimo storico del consenso.
«Rinuncio alla mia ambizione di prendere parte al governo federale, e allo stesso tempo mi auguro vivamente che finisca la polemica sulla mia persona all’interno della Spd.». È il passo indietro richiesto nella turbolenta riunione a porte chiuse del gruppo al Bundestag, e poi con l’ultimatum scanditogli in serata: abbandonare il sogno del ministero degli esteri oppure l’isolamento.
Una castagna in meno sul fuoco del referendum degli iscritti che voterà il futuro della Groko entro fine mese, nell’incertezza riflessa nei sondaggi che riproducono la spaccatura del congresso di Bonn. Allora, solo il 56% dei delegati Spd approvò la linea-Schulz; oggi più del 40% dei tesserati resiste all’alleanza respinta dagli elettori il 24 settembre.
In testa alla disobbedienza c’è sempre il capo dei Giovani socialisti, Kevin Kühnert, passato all’incasso del primo colpo nella guerra post-congressuale al segretario: «Nelle prossime tre settimane, la Spd si occuperà di contenuti. Ogni grande ego dovrà essere in grado di resistere, almeno per un momento».
Tuttavia, il nemico numero uno di Schulz da ieri si chiama Gabriel: ha lanciato il «siluro» che ha colato a picco l’auto-candidatura dell’ex presidente del Parlamento europeo: «Mi spiace che la nuova leadership della Spd dimostri pubblicamente di non apprezzare il lavoro che ho svolto da ministro», precisa ai media del gruppo Funke. Prima di denunciare «quanto irrispettosa sia diventata la relazione nel mio partito. E quanto poco conti la parola data».
Un colpo ben sotto la cinta, per sbrigare una questione «privata» legata ad accordi verbali che a Berlino hanno il valore di patti. Quando il 20 gennaio 2017 Gabriel ha lasciato la segreteria Spd nelle mani di Schulz (con il partito a quota 32%) la contropartita prevedeva proprio il ministero degli esteri: nella Groko di allora come in quella destinata a nascere entro tre settimane.
Da qui lo sgarbo di Schulz visto da Gabriel come l’equivalente tedesco dello stare-sereni, anche se a incrinare il rapporto, un tempo idilliaco, ci ha pensato il doppio-gioco del leader della Spd: negli ultimi dieci mesi non ha mancato di esaltare l’operato del compagno-ministro ma anche di marcare le distanze dal governo social-democristiano.
«Il passo, comunque, era inevitabile», spiega il vice-presidente Ralf Stegner dimostrando il consueto realismo oltre al «grande rispetto per la decisione del segretario». In entrambi i casi, l’improvvisa retromarcia di Schulz riduce ai minimi termini le sue chance politiche: da vincitore del «contratto di coalizione» con Merkel che prevede tre ministeri di peso per la Spd, a segretario che ha perso il posto, visto l’annunciato passaggio di consegne alla capogruppo Andrea Nahles dopo il voto degli iscritti.
Tutto in meno di una settimana, mentre si negoziano ancora i dettagli dell’accordo di governo e c’è da riempire, di nuovo, la casella del dicastero prenotato dai socialisti.
FONTE: Sebastiano Canetta, IL MANIFESTO[1]
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