Economia politica del comune. La crudele morsa del «lavorismo»
Considerato un argomento esotico il «reddito» sta invece riscuotendo un insospettabile interesse nella scialba campagna elettorale in vista del 4 marzo. Berlusconi ha parlato di «reddito di dignità», rovesciando l’originale significato stabilito da una campagna di Libera e del Basic Income Network-Italia. I Cinquestelle hanno fatto del «reddito di cittadinanza» – in realtà una forma arcigna di workfare e lavoro coatto – una bandiera da sventolare sul loro 25% e più di voti.
Dopo decenni di ostilità, anche a sinistra il «reddito minimo garantito» ha fatto capolino nel programma di Potere al Popolo, sia pure inteso come una forma di lotta contro la povertà e non come redistribuzione della ricchezza prodotta dagli esseri umani connessi 24 ore su 24 sulle piattaforme digitali, ad esempio.
NELL’ULTIMA LEGISLATURA è stato approvato il «reddito di inclusione sociale» (Rei), un sussidio di ultima istanza vincolato all’obbligo di una formazione al lavoro riservato ai capofamiglia di nuclei numerosi soggetti a condizioni di particolare deprivazione. L’interesse per il reddito è sempre vincolato all’obbligo di un lavoro, al di là del contenuto stesso del lavoro. Questo legame è imposto dal pessimismo antropologico, e dall’odio contro l’autonomia delle persone. Il riconoscimento pubblico di un reddito indipendentemente dal lavoro è inconcepibile. Nessuno può essere libero dal ricatto del lavoro sempre più povero e precario. Al massimo, può ricevere poche centinaia di euro – da 190 a 450 euro con il Rei per una famiglia fino a 5 figli. In cambio si deve sputare sangue. E poi? Più nulla. Il precario resta in trappola. E non ne uscirà più.
Questo inferno viene spiegato da Andrea Fumagalli, uno degli economisti più consapevoli, e sensibili, che in Italia ha introdotto – in tempi non sospetti – il tema del «reddito di base individuale», incondizionato, per tutta la vita, al di là delle nazionalità. In Economia politica del comune (DeriveApprodi, pp. 235, euro 18), Fumagalli ricostruisce lo scenario economico e produttivo che rende necessario e insuperabile oggi il problema politico del reddito. A esigerlo è la trasformazione del sistema produttivo e della valorizzazione capitalistica fondata sulla vita e non più solo sul salario.
LA TRASFORMAZIONE, sottolinea l’economista milanese, è radicale: se prima la vita era impegnata nella produzione per un delimitato periodo di tempo (otto ore al giorno), oggi produce 24 ore su 24, indipendentemente che lo voglia o no. In pratica, si produce anche fuori dal rapporto di lavoro dove si vende una forza lavoro in cambio di un salario. Non solo: si produce un valore per un altro senza che l’interessato se ne renda conto. L’esempio di questa espropriazione involontaria è quello di Facebook. Tanto più scrolliamo la sua timeline sullo schermo dello smartphone, tanto più produciamo dati per l’offerta pubblicitaria personalizzata.
CONSIDERARE questa attività di intrattenimento come un lavoro sembra improprio. Ma è esattamente quello che accade quotidianamente: il lavoro è stato trasformato in un gioco che arricchisce gli unicorni che dominano il mercato dall’alto delle loro immense capitalizzazione nel listino di Wall Street o di quello a Pechino. «Il valore-lavoro – scrive Fumagalli – lascia sempre più spazio al valore-vita». L’intera vita diventa oggetto di sfruttamento. Nuove produzioni prendono piede a partire dagli affetti, dalle attitudini, dagli stili e dalle mentalità delle persone in carne ed ossa. Questa macchina ha ingurgitato il tempo libero, le relazioni amicali e sentimentali, i processi di apprendimento e di formazione, il corpo umano nelle suye componenti fisiche e cerebrali, la salute e la riproduzione della vita grazie alle nuove tecniche bio-medicali. Tutto questo per Fumagalli forma il «capitalismo bio-cognitivo».
Che cosa, dunque, produce un valore incalcolabile? «L’intrapresa delle relazioni umane e sociali», quella che Marx ha definito a suo tempo «cooperazione sociale».
In questa «cooperazione» rientra anche quella tra noi e le piattaforme – le app che usiamo per ordinare una cena giapponese trasportata da un rider di Deliveroo in una notte di pioggia dopo le otto di sera. Noi che ordiniamo, e lui che trasporta la merce, cooperiamo al profitto dell’intermediario che ci ha messo in contatto con un ristorante.
QUESTA VECCHIA LEGGE del capitalismo è sempre presente nel mondo patinato del capitalismo digitale. La tendenza a eliminare ogni riferimento al «lavoro» (chi fa il «rider» lo fa per «hobby», si dice) non elimina tuttavia la produzione reale di profitto ottenuta dal furto di qualcosa che è comune a tutti gli uomini e le donne: la potenza produttiva, la capacità o facoltà, una vita.
È questa economia politica del comune che alimenta il nuovo meccanismo di accumulazione, espropriando chi vive del suo valore. Questa descrizione «neo-operaista» – l’espressione è usata da Fumagalli – coglie un aspetto importante del pensiero contemporaneo che ha individuato nella soggettività, e nella sua attività, il centro della politica. Tale consapevolezza è presente nel femminismo, nella filosofia della «biopolitica», nella psicoanalisi e nel dibattito economico, per fare alcuni esempi. Fumagalli ne fa un’analisi rigorosamente marxiana e individua il problema nella crisi del «valore lavoro». Il «lavorismo» è la manifestazione di una cultura che ha attribuito al valore un’oggettività che prescinde dalla soggettività individuale o collettiva.
Il «lavoro» è considerato lo strumento che misura il valore prodotto da un essere umano. Da quando, invece, il modo di produzione è fondato sul «comune» tale oggettività non può essere più considerata tale. Fumagalli non mette in discussione il lavoro in quanto produttore di valore, ma la capacità del capitale di quantificare e misurare il contributo del lavoro nel calcolare la ricchezza prodotta. Il «lavoro» non è più la «misura». Tanto è vero che la produzione avviene attraverso attività estranee allo scambio con un salario.
Il problema è che tali attività vanno pagate. A questo serve il reddito di base di cui Fumagalli è uno dei principali teorici. Il reddito non è un salario in cambio di una prestazione, né il riconoscimento di un «merito». È l’affermazione di una produzione già esistente, della redistribuzione di una ricchezza immensa prodotta dalla nuova forza lavoro.
SU QUESTO PUNTO il libro di Fumagalli è estremamente preciso e dettagliato e va letto come una guida per decostruire tutte le versioni del reddito che tendono a imprigionare una vita già ferita ed estenuata dalla ricerca del lavoro più miserabile che esista. In uno scenario di progressiva frammentazione e isolamento, nell’implosione delle soggettività indebitate, il reddito (di base) è il primo strumento – quello preliminare, e non certo esaustivo – per respingere il ricatto del lavoro e iniziare a parlare di auto-determinazione e liberazione della vita. Per questo non basta sviluppare conflitto solo nell’ambito dell’attività lavorativa «certificata». Il conflitto va portato in tutte le sfere della vita messa in produzione e contro tutti coloro che intendono sfruttarla obbligandola a rispettare i percorsi premiali e punitivi delle «politiche attive» che concedono spiccioli in cambio di una subordinazione senza più nemmeno una redenzione.
FONTE: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO
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