In casa di Luca Traini, tra Mein Kampf, croci celtiche e riviste fasciste
TOLENTINO «Non ti curar di lor ma guarda e passa», dice la nuora, storpiando Dante, alla signora Luisa Scisciani, la mamma di Luca Traini, il pistolero pelato di Macerata che sabato mattina ha seminato il panico in città. Un incoraggiamento ad andare avanti, malgrado tutto quello che suo figlio ha fatto: il tirassegno sui neri con la Glock in pugno, gli spari, il sangue, i feriti, il saluto romano al Monumento dei Caduti e la bandiera tricolore per mantello.
Il giorno dopo, nella casa di Tolentino, la stessa da cui Traini è partito per compiere il raid, mamma Luisa è pallidissima in volto, probabilmente non ha dormito, è stremata. Non poteva certo immaginare quello che il suo secondogenito, col dente di lupo tatuato in testa, avrebbe combinato all’improvviso in un paio d’ore: «Eh, questa è veramente una tragedia», sospira con un filo sottilissimo di voce l’ex impiegata dell’Agenzia delle Entrate ora in pensione.
Fino a ieri, Luisa pensava davvero che il suo unico male fosse il diabete, con cui lotta da anni. Invece adesso una pena assai più grande l’affligge. Per consolarla, ieri, è andato a pranzo da lei l’altro figlio Mirco, il fratello maggiore di Luca, con la moglie e il figlioletto nel passeggino, battezzato appena un mese fa.
Da quella casa, l’altro giorno, i carabinieri hanno portato via una copia del «Mein Kampf» e altro materiale d’ideologia nazista da cui si abbeverava il futuro giustiziere col diploma da geometra: «Ma per me Luca è stato sempre un bravissimo figlio, da quando mi sono ammalata si è preso cura di me», dice sua madre, intabarrata in un piumino nero per difendersi forse dal freddo che sente dentro. Mirco, tecnico di caldaie, è venuto per portarla da lui, in contrada Corneto, a Macerata, via da quella casa ormai piena di incubi. Luisa era andata a vivere a Tolentino — raggiungendo sua madre Ada — dopo la burrascosa separazione con il marito Enzo, fatta di molti litigi e anche molte chiamate alla polizia. Un fatto traumatico, per Luca, che deve averci sofferto tanto e infatti l’altra notte, dopo la cattura, ha sentito il bisogno di raccontarlo in caserma pure al suo avvocato, Giancarlo Giulianelli. Con il legale Traini si è aperto molto: «Adesso lei mi vede così palestrato — gli ha confessato — ma da ragazzino ero grassoccio, quasi obeso e i compagni di classe mi prendevano in giro…». Gli ha parlato, poi, delle sue fidanzate, di una in particolare con problemi di tossicodipendenza. «Forse per questo si è scatenata la sua furia — chiosa il legale —. Ha legato i ricordi a Pamela Mastropietro e al pusher di colore che l’ha uccisa. Così è scattato l’odio».
Ma ogni ora che passa, il pensiero di lui in cella, sorvegliato a vista e in isolamento totale, diventa sempre più insopportabile per la mamma: «Voglio andare al più presto a trovarlo in carcere — dice la signora Scisciani — voglio guardare mio figlio negli occhi…». Inutile chiederle cosa gli dirà: «Quello che ho da dirgli, lo dirò a lui direttamente», risponde secca. Dopo aver pranzato, Mirco e sua moglie caricano i bagagli nella macchina. Lui non gradisce la presenza dei cronisti: «È domenica, che volete? Lasciateci in pace o chiamo la polizia», dice brusco spingendo la carrozzina del figlio neonato. Sua moglie, invece, è più accomodante e si preoccupa soprattutto di aiutare nonna Ada, la mamma quasi ottantenne di Luisa, che cammina a fatica con una busta rossa in mano e in testa un fazzolettone d’altri tempi. Anche Ada ha un pensiero per suo nipote Luca recluso in carcere: «Prego per lui ogni giorno», dice in dialetto stretto. E se ne va.
FONTE: Fabrizio Caccia, IL MANIFESTO
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