Intervista a Fausto Durante. Per un lavoro degno, di qualità, alleato con l’ambiente

by Alberto Zoratti, 15° Rapporto sui diritti globali | 12 Febbraio 2018 7:49

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A partire dalle iniziative contro il CETA, il Trattato di libero scambio tra Canada e Unione Europea, emergono le contraddizioni e i rischi legati a una visione del commercio rivolta esclusivamente al profitto delle grandi multinazionali. Secondo Fausto Durante, responsabile delle Politiche europee e internazionali della CGIL, si tratta di un approccio che, oltretutto, penalizza le imprese italiane, soprattutto del settore agricolo, dell’alimentazione e del cibo di qualità. Ma il pericolo per i diritti sociali e del lavoro non viene solo dagli accordi commerciali. Il quadro globale mostra, ad esempio, che l’attacco al diritto di sciopero in Europa è tornato a essere molto forte. Mostra un presidente statunitense cavalcare la retorica populista dell’American First, mentre impedisce ai lavoratori delle sue aziende di aderire ai sindacati. Mostra una nuova rivoluzione tecnologica e industriale imminente, con la sostituzione del lavoro umano con i robot, accompagnarsi non alla liberazione del tempo, ma alla crescita del lavoro precario, scarsamente remunerato e senza diritti. Le sfide che il sindacato ha davanti sono, dunque, l’attuale modello di produzione nell’economia globalizzata, che non è più sostenibile; il lavoro nel nuovo millennio, con una rivoluzione tecnologica cui si deve accompagnare la riduzione dell’orario di lavoro e una sua umanizzazione; le politiche redistributive e dei salari.

 

Rapporto sui diritti Globali: Accordo con il Canada: una convergenza inimmaginabile fino a pochi mesi fa ha riunito la CGIL, Coldiretti, la Campagna Stop TTIP Italia e tante realtà in una manifestazione contro il CETA davanti a Montecitorio: cosa ne pensi e che conseguenze ne trai?

Fausto Durante: La vicenda del CETA è emblematica di come fatti concreti possano cambiare orientamenti consolidati, arrivando persino ad avvicinare culture politiche diverse. Sul CETA, ad esempio, si è verificata una convergenza tra Coldiretti e CGIL, che certo non si può dire siano state o siano ispirate dalla stessa cultura politica. Si sono però trovati elementi in comune sul merito, sul giudizio negativo su un Trattato che potrebbe avere conseguenze sfavorevoli per l’agricoltura italiana, per il lavoro e i diritti sociali. È la chiara dimostrazione di come un’analisi onesta e non ideologica della realtà possa comportare e provocare convergenze imprevedibili, ma foriere di possibili sviluppi positivi per il domani. L’agenda comunitaria sul commercio internazionale, l’impostazione politica che in modo particolare Commissione e Unione Europea hanno dato in questi ultimi anni alle questioni del commercio internazionale, stanno facendo venire alla luce contraddizioni e possibili conseguenze negative di un’idea del commercio ispirata solo ed esclusivamente dal profitto delle grandi imprese multinazionali, un approccio non certamente tarato sulla dimensione e la taglia delle imprese italiane, soprattutto di quelle del settore agricolo, dell’alimentazione e della produzione di cibo di qualità.

Ciò che è accaduto per il CETA, quindi, potrebbe verificarsi anche su altre ipotesi di accordi commerciali internazionali, considerato che l’Unione Europea ne sta discutendo molto. Credo quindi che possa irrobustirsi una collaborazione, un rapporto tra organizzazioni diverse ma che sul terreno delle cose concrete scoprono di avere obiettivi comuni e valutazioni convergenti.

 

RDG: Donald Trump paradossalmente è stato il miglior alleato dei movimenti sul TTIP, ma c’è qualcosa che stona. Cosa c’è di discutibile nella sua agenda “America First anche e soprattutto per i lavoratori americani?

FD: Dal punto di vista del sindacato e del mondo del lavoro in America, penso soprattutto a ciò che ci stanno raccontando i nostri amici e colleghi del sindacato americano AFL-CIO: Trump è il più grande imbroglio che ai lavoratori americani potesse capitare. Ha fatto leva sulle paure della classe media rispetto alle conseguenze della crisi, sul rischio di chiusura di stabilimenti, sul processo di delocalizzazione che questa globalizzazione sregolata ha in parte prodotto, causando un impoverimento dei redditi medi e medio bassi. Obiettivamente una situazione di forte incertezza oltre che di perdita di speranza nel futuro per la middle class americana su cui Trump si è concentrato, utilizzando questa condizione (reale) per realizzare un grande abbaglio collettivo.

La maggior parte dei lavoratori americani ha votato per Trump, una persona che non permette ai lavoratori della propria holding di associarsi al sindacato, sfruttando al meglio le opportunità offerte dalla legislazione americana (che scoraggia la libertà di associazione sindacale e intralcia il tentativo dei sindacati americani di entrare nelle imprese), in un Paese che non ha mai ratificato molte delle più importanti convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), come quella sul diritto alla contrattazione collettiva, alla rappresentanza sindacale, al diritto di sciopero. Insomma ha fatto leva su una situazione per sfruttare paure e insicurezze della società a proprio vantaggio.

Dal punto di vista del commercio internazionale la sua è un’impostazione totalmente nazionalistica, che però non regge rispetto alle dinamiche dell’economia globale: nell’economia di oggi un isolamento o un ritirarsi a una condizione autarchica degli Stati Uniti non è pensabile e non è neppure auspicato dalle grandi imprese e dai soggetti economici a cui lui dice di riferirsi. In verità la strategia di Trump sembra essere più una sorta di “furia francese, ritirata spagnola”, che rischia di non cambiare nulla nella realtà, basterebbe pensare alla possibile ripresa di una trattativa sul TTIP, piegato stavolta alle esigenze delle imprese americane. “America First”, “il lavoro deve ritornare in America”, sono in verità slogan che si scontrano con la realtà dei fatti.

 

RDG: Economia sostenibile non è solo commercio internazionale equo, ma sono anche condizioni di lavoro dignitose e giuste: come si sta sviluppando il percorso su multinazionali e diritti umani che stai seguendo a livello internazionale?

FD: La CGIL è da tempo attenta a questa dimensione: esistono gruppi di lavoro che operano attivamente sia in ambito della Confederazione Sindacale Internazionale (CSI) sia nei rapporti tra questo livello globale e la Confederazione Europea dei Sindacati (CES).

Il lavoro del futuro e del tempo presente non può essere povero o senza qualità, a meno che non si decida che la crescita debba essere collegata a un sempre maggiore sfruttamento del mondo del lavoro.

Il prossimo futuro, caratterizzato da programmi come Industria 4.0, da una crescente digitalizzazione, da una nuova rivoluzione tecnologica e industriale imminente, dalla sostituzione totale o parziale del lavoro umano con macchine o robot, non può e non deve basarsi su lavoro precario, sfruttato, poco remunerato e senza diritti. Su tutto ciò esiste un’elaborazione, che condividiamo molto, da parte delle Nazioni Unite, dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dove la rappresentanza dei lavoratori svolge un ruolo essenziale e di stimolo, di pungolo rispetto ai Governi e alle rappresentaze imprenditoriali. L’impresa del terzo millennio, dovrà impegnarsi sulla tutela dei diritti umani, sull’eliminazione dello sfruttamento minorile, del lavoro schiavo, sull’estensione a tutti i lavoratori dei diritti basilari santici dall’OIL (contrattazione collettiva, sciopero, associazione sindacale) indipendentemente dal ruolo e dalla localizzazione geografica. Per questo continuiamo a insistere perchè gli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile (SDGs), le raccomandazioni sulla Responsabilità Sociale delle Imprese (RSI o CSR), diventino, da indicazioni sulla carta senza carattere vincolante e con un aspetto sanzionatorio molto debole, obiettivi dei Governi e delle grandi istituzioni internazionali, per fare in modo che le imprese siano chiamate a un’assunzione di responsabilità ineludibile. E tutto questo è necessario ancor di più oggi, che viviamo in un mondo del lavoro precarizzato, atomizzato, senza diritti persino nei Paesi che si dovrebbero definire avanzati. L’attacco al diritto di sciopero in Europa è tornato a essere molto forte, quindi stiamo discutendo di una grande idea per il futuro, ma che si cala in un contesto presente dove questi diritti vengono attaccati e spesso anche negati.

 

RDG: Una questione molto delicata è quella di riuscire a mettere insieme il rispetto dei diritti dei lavoratori con la tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini (il caso ILVA è un esempio). Sembra un equilibrio a volte difficile da trovare. Che ne pensi?

FD: Dal punto di vista dell’elaborazione teorica, sulla necessità di un nuovo compromesso tra le esigenze del mondo del lavoro e della produzione, e quello della tutela dell’ambiente; sulla necessità di assicurare una giusta transizione nel percorso verso un’economia sostenibile, o verso la cosiddetta Green economy, esiste un’elaborazione molto avanzata della Confederazione Sindacale Internazionale (CSI) a cui noi come CGIL abbiamo portato diversi contributi, partecipando fra l’altro alle discussioni della CSI in occasione dell’L20, la riunione dei sindacati dei Paesi del G20 che si è svolta alcuni anni fa a Pechino. In quel contesto, proprio la CGIL portò l’esperienza della transizione in Italia dopo la scelta del nostro Paese di non continuare a produrre energia nucleare, quindi il percorso di riconversione di riquilificazione professionale, di formazione dei lavoratori prima impegnati in quel settore. Esiste, insomma, una crescente sensibilità che ha portato in qualche misura sia la CSI e la stessa CES ad affrontare il tema della necessità di produrre in maniera ambientalmente sostenibile l’acciaio in Europa, cosa che ha portato a uno scontro con i sindacati dei Paesi dell’Est.

La posizione della CSI è molto chiara: «non c’è lavoro in un pianeta morto», cioè se continuiamo a produrre senza porci il problema della salvaguardia dell’ambiente, della pulizia dell’aria e dell’acqua che consumiamo, della salute delle persone, dello stato della vita su questo pianeta, prima o poi arriveremo al punto in cui non ci sarà più nulla da produrre perchè paradossalmente non ci sarà più la possibilità della vita per il genere umano.

Bisogna fare in modo, però, che nel processo verso la transizione giusta, non siano i lavoratori a doverci rimettere. Nella riconversione delle attività inquinanti e delle produzioni più nocive vanno immaginate compensazioni per i territori, vanno aiutate le amministrazioni locali anche dal punto di vista finanziario ed economico per sostenere progetti di riconversione, vanno salvaguardati i diritti dei lavoratori. Perchè il prezzo della trasformazione non debba essere pagato sempre dai soliti noti.

 

RDG: Un’ultima domanda: quali sarebbero secondo te le sfide più importanti che il sindacato internazionale dovrà affrontare nel futuro?

FD: Ci sono tre grandi questioni in ballo: una l’abbiamo già affrontata e riguarda l’attuale modello di produzione nell’economia globalizzata, che non è più sostenibile. Dobbiamo trovare alternative al modello tradizionale ispirato dal neoliberismo, che sta portando le condizioni di lavoro alla catastrofe, oltre che condannare il pianeta a una prospettiva di inquinamento e di invivibilità. Questo è uno dei grandi temi attorno ai quali si gioca il futuro del mondo.

Il secondo è quello del lavoro del nuovo millennio: si parla con sempre maggiore insistenza di quarta rivoluzione industriale, legata all’impatto che avrà l’innovazione tecnologica e la robotica sul mondo del lavoro, alle nuove modalità di produzione e di organizzazione del lavoro. Se tutto ciò ha un senso, cioè se serve per migliorare le condizioni di tutti e non solo per i bilanci e i profitti delle imprese, allora il grande tema diventa la ridiscussione degli orari e dell’organizzazione dei lavoro. Le otto ore di lavoro erano probabilmente la quantità di lavoro più adatta nel secolo passato, non è detto che lo siano in quello presente. Quindi la riduzione dell’orario di lavoro e una sua umanizzazione diventano temi centrali.

L’altra grande questione riguarda le politiche redistributive e dei salari: siamo in presenza a livello mondiale di una tendenza in cui il lavoro diventa precario, incerto, a tempo determinato. Oggi i contratti a tempo indeterminato rappresentano ormai l’eccezione e non più la regola, e in più questo lavoro oltre a essere precario non è più neppure ben remunerato.

La sostenibilità del modello economico, l’umanizzazione del lavoro e la riduzione del tempo lavorato, assieme alla necessità di una grande campagna per una difesa del potere d’acquisto dei salari credo quindi siano le tre grandi questioni che il sindacato internazionale dovrà affrontare per il prossimo futuro a livello mondiale.

 

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Fausto Durante: è coordinatore dell’Area delle politiche europee e internazionali della CGIL dal marzo 2015 e componente del Comitato esecutivo della Confederazione europea dei sindacati da maggio 2012. Sempre da maggio 2012 ha avuto la responsabilità del Segretariato Europa della CGIL. In precedenza, ha maturato una lunga esperienza nel sindacato dei metalmeccanici. Dal 1993 al 2000 è stato segretario generale della FIOM di Lecce; dal 2000 al 2004 è stato responsabile dell’Ufficio Europa della FIOM nazionale, componente del Comitato esecutivo della Federazione europea dei metalmeccanici, coordinatore dei Comitati aziendali europei di General Electric Oil&Gas, di Electrolux e di ILVA; dal 2004 al 2010 è stato segretario nazionale della FIOM con delega alla siderurgia, al settore ICT, all’industria ad alta tecnologia, alla componentistica auto. Per la FIOM nazionale ha anche seguito la previdenza complementare.

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Qui un articolo sul Rapporto, da pag. 13 di Sinistra Sindacale n. 21[12]

Qui la registrazione di Radio Radicale della presentazione del 15° Rapporto a Torino, il 31 gennaio 2018[13]

Qui un’intervista video a Sergio Segio e Susanna Ronconi sui temi del nuovo Rapporto[14]

Qui l’articolo di Sergio Segio “L’apocalisse e il cambiamento possibile”, da Appunti n. 23, 1/2018[15]

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