Intervista a Cristina Faciaben. Un sindacato all’offensiva, per cambiare il mondo diseguale
Il sindacato è ancora indispensabile e utile, dice Cristina Faciaben, responsabile internazionale di Comisiones Obreras (CCOO), per i lavoratori e per la società in generale, ma deve prendere atto dei cambiamenti e adattarsi alla nuova situazione e alle nuove sfide. Per questo deve essere un sindacato all’offensiva che rifiuta la precarietà (che non si organizza, si combatte) e che lavora per una reale globalizzazione dei diritti. Un sindacato che difende i diritti delle persone, dei profughi e dei migranti e che non rinuncia a lottare per un’Europa sociale e dei diritti.
Redazione Diritti Globali: Quali sono i ritardi, problemi e prospettive del sindacato in materia di percorsi politici, sociali e organizzativi verso la globalizzazione dei diritti?
Cristina Faciaben: La globalizzazione dei diritti è senza dubbio una delle sfide principali per il sindacalismo, tanto a livello nazionale che internazionale. L’economia globale, e soprattutto la gestione neoliberale della stessa, sta generando nuove e maggiori diseguaglianze, escludendo milioni di persone dai benefici di questa globalizzazione, condannandole a soffrire i suoi molteplici effetti negativi. In questo scenario il sindacalismo deve giocare un ruolo importante nella denuncia delle ingiustizie e nell’implementazione di misure che riducano le conseguenze negative di un mondo globale ma disuguale. Uno dei livelli in cui possono agire le organizzazioni dei lavoratori è quello delle imprese multinazionali e delle loro catene globali di produzione e distribuzione. In questi spazi, i sindacati devono lavorare per garantire l’uguaglianza dei diritti di tutti i lavoratori in qualunque punto del pianeta si trovino a intervenire nei processi produttivi globali. La lotta per la distribuzione giusta della ricchezza e il rispetto dell’ambiente devono continuare a stare nelle agende sindacali per poter progredire verso la globalizzazione dei diritti.
RDG: Quanto del Nuovo Contratto Sociale Europeo della CES è stato implementato? Quali sono le sfide ancora aperte? Detto in altro modo: come definiresti lo stato di salute del sindacato europeo?
CF: Il Nuovo Contratto Sociale Europeo è stata un’iniziativa ambiziosa del sindacalismo europeo che, sfortunatamente, non è stata implementata. L’idea di un’Europa sociale dove i diritti dei lavoratori e lavoratrici abbiano la stessa rilevanza in altri ambiti, come l’economia e la finanza, non è condivisa dalle élites politiche che governano gli Stati membri né dalle istituzioni europee, e neppure dall’organizzazione europea di imprenditori.
Il sindacalismo europeo che rappresenta la CES non si trova in cattivo stato di salute, ma le enormi difficoltà che la maggioranza dei sindacati affiliati hanno sofferto a livello nazionale hanno indebolito, in un certo modo, anche l’azione collettiva della CES. Allo stesso modo le enormi differenze esistenti tra i Paesi, come tra le culture sindacali in Europa, non facilitano la mobilitazione del movimento sindacale europeo, cosa che noi di Comisiones Obreras consideriamo necessaria per difendere i diritti del lavoro e sindacali ma anche per una redistribuzione della ricchezza che contribuisca a migliorare il livello di vita delle persone.
RDG: Il 13 e 14 giugno 2017 a Bruxelles si è riunito il Comitato Esecutivo della CES. Si sono discussi i documenti che la Commissione Europea ha presentato nell’ambito del Libro Bianco sul Futuro dell’Europa. Comisiones Obreras ha respinto la dichiarazione della Commissione per cui «La maggioranza dei nuovi posti di lavoro è di buona qualità, nel senso che offre salari adeguati, sicurezza nel mercato del lavoro e un ambiente di lavoro favorevole» e in relazione al documento di riflessione della stessa Commissione sulla Dimensione Sociale dell’Europa, la vostra rappresentante ha chiesto che la CES non si limiti alla semplice rivendicazione del ruolo centrale dei lavoratori migranti e dei profughi dal punto di vista del loro contributo all’economia, ma si spinga oltre. Come sono state accolte le vostre richieste?
CF: La posizione di CCOO rispetto al futuro dell’Europa è molto simile a quella definita dalla CES. Per noi, non c’è futuro per una Europa che non rafforzi il suo carattere sociale. Non possiamo accettare un’Europa centrata unicamente in un mercato unico e una moneta comune, le persone e i loro diritti devono essere il cuore delle politiche comuni europee. L’uguaglianza e la coesione sociale non possono essere diritti di grado inferiore alle questioni economiche e finanziarie.
CCOO considera, per esempio, che la CES debba mantenere una posizione ferma sulla difesa dei diritti fondamentali di asilo alle persone profughe, riconosciuti da norme internazionali, e di tutte le persone costrette a emigrare per avere un’opportunità di sopravvivenza. Parliamo del loro contributo all’economia europea, ma prima di tutto parliamo di persone in una situazione di vulnerabilità che, nel caso delle persone profughe, stanno fuggendo per salvarsi la vita e, nel caso delle persone migranti, fuggono da un luogo che non offre loro nessuna possibilità, mettendo a rischio in molti casi la loro esistenza. In entrambi i casi, si deve pretendere in maniera intransigente che i diritti di tutte queste persone siano garantiti e bisogna denunciare senza mezzi termini la loro violazione.
RDG: Più in generale, qual è la posizione di CCOO su questa roadmap sul futuro dell’Europa?
CF: Come ho detto, per CCOO la roadmap sul futuro dell’Europa deve avere come vettore principale un’Europa sociale e delle persone. Questo implica anche un’Europa più giusta e coesa, un’Europa solidale che sia capace di dare risposta alle grandi sfide che ha davanti, come la crisi umanitaria delle persone profughe, i flussi migratori, le diseguaglianze tra Stati, l’euroscetticismo, la crescita della destra…
CCOO ha apertamente manifestato il rifiuto di questo tono trionfalistico e auto-compiacente utilizzato dalla Commissione Europea quando parla del suo presente e anche del suo futuro. Non è possibile disegnare un futuro senza autocritica e senza volontà di correggere quegli errori che non hanno permesso di concludere la costruzione del progetto europeo e che hanno impedito di trasformare in realtà una Europa dei diritti e sociale.
RDG: A maggio 2017 hai partecipato al Summit del L20 a Berlino. Quali sono state le domande e raccomandazioni dei sindacati e quali le risposte?
CF: Il gruppo L20 si propone come lobby della classe lavoratrice di fronte ai governi dei 20 Paesi più sviluppati che fanno parte del G20. Pertanto, le posizioni che si difendono in questo ambito sono quelle che sostanzialmente vengono indicate come prioritarie dalla CSI. In questo senso, le richieste sindacali hanno evidenziato che non devono continuare a essere le lavoratrici e i lavoratori quelli che pagano le conseguenze della crisi: devono essere i beneficiari del miglioramento della situazione economica che si possa produrre nei Paesi più sviluppati del pianeta. Bisogna lavorare per garantire il benessere della popolazione nel resto del mondo.
RDG: L’Unione Europea è Premio Nobel per la Pace. Tuttavia, il suo ruolo è stato fino a questo momento molto timido, per non dire assente, in molti dei conflitti in atto. In Siria, per esempio, non solo non ha giocato nessun ruolo di mediazione ma non è stata nemmeno capace di produrre una politica di accoglienza reale per i profughi. Al contrario, la politica europea sull’immigrazione continua a essere caratterizzata dall’esternalizzazione e militarizzazione delle frontiere. Che ruolo aspira a giocare il sindacato in materia di immigrazione, guerre, profughi? Che resta delle relazioni con i sindacati delle cosiddette primavere arabe?
CF: In primo luogo, CCOO ha reiterato in varie occasioni la sua delusione di fronte al vergognoso atteggiamento della UE sulla crisi umanitaria dei profughi. Il diritto internazionale stabilisce in maniera inequivocabile e chiara quali sono le garanzie legali dell’asilo. Inoltre, la UE, che rappresenta un grande mercato e una grande economia mondiale, non ha scuse per non accogliere e dare opportunità ai profughi e profughe che arrivano alle sue frontiere. La solidarietà era uno dei principi fondanti dell’Unione Europea, per cui questo abbandono delle proprie responsabilità, condivisa in parti uguali da UE e Stati membri, è ancora più grave.
L’accordo della UE con la Turchia per la “esternalizzazione” dei profughi dall’Europa (verso uno Stato dove i diritti fondamentali sono ripetutamente violati dal governo del presidente Erdogan), attraverso una transazione economica grazie alla quale la UE si “svincola” dal problema dei profughi senza preoccuparsi del futuro che attende migliaia di persone, è uno dei maggior esempi del cinismo politico che ha caratterizzato la UE, un’Unione che si vanta di aver evitato la guerra in Europa dopo la Seconda guerra mondiale.
La politica sull’immigrazione della UE è un altro esempio della mancanza di sensibilità sociale che insieme alla politica di rifugio ha contribuito a far sì che migranti e profughi abbiano alimentato il discorso anti-europeo e dell’estrema destra nel dibattito sul Brexit o le elezioni in Francia, Olanda…
La CES, secondo noi, potrebbe avere un atteggiamento più combattivo contro la politica d’immigrazione e di asilo della UE, cosa che abbiamo detto ripetutamente. Siamo consapevoli che i sindacati che compongono la CES non hanno una posizione comune e che qualche sindacato difende l’idea di più frontiere e limitazioni alla libera circolazione, ma in serio rischio sono i diritti umani e la solidarietà di un progetto europeo.
Infine, CCOO ha sempre mantenuto la sua relazione con i sindacati dell’Egitto (nonostante le enormi difficoltà, vista la complessa situazione politica e sindacale nel Paese che limita l’attività dei sindacati indipendenti), ma anche con Tunisia, Algeria, Marocco e Sahara Occidentali…, nonostante la cooperazione sindacale internazionale sia praticamente scomparsa, quando era invece uno spazio di contatto diretto con queste organizzazioni, continuiamo a collaborare e siamo in stretto contatto.
RDG: CCOO è stata molto presente nel processo di pace in Colombia, così come era stata molto presente durante la guerra, con progetti importanti e coraggiosi in difesa dei sindacalisti e dei lavoratori, ma anche con altri progetti di sostegno. Siete stati molti attivi anche nella questione palestinese. Come state lavorando sul piano della cooperazione internazionale?
CF: Per CCOO la cooperazione sindacale internazionale, con l’obiettivo di contribuire allo sviluppo del sindacalismo in quei Paesi dove la situazione politica, economica, lavorale ha complicato questo sviluppo e un’attività normalizzata dei sindacati, è sempre stata uno dei nostri punti fermi.
Sfortunatamente la crisi, ma soprattutto la strategia di governo del Partido Popular in Spagna di escludere i sindacati dalla gestione di progetti di solidarietà e cooperazione, ha ridotto praticamente a zero la nostra cooperazione sindacale internazionale. Nonostante questo, siamo riusciti a mantenere alcuni progetti.
Palestina e Sahara Occidentale sono stati e continuano ad essere due dei nostri spazi di solidarietà sindacale. CCOO ha sempre avuto una relazione speciale, fraterna direi, con l’America Latina. Negli ultimi anni le nostre difficoltà economiche hanno limitato molto la nostra presenza in America, ma stiamo cercando di recuperarla.
La Colombia da molti anni è uno degli obiettivi della nostra azione sindacale internazionale, la speciale circostanza della violenza generalizzata nel Paese e contro i sindacalisti in maniera specifica, ha giustificato la nostra presenza. Abbiamo assistito a una cerimonia sindacale internazionale di appoggio al “Sì” al referendum sull’Accordo di Pace nel 2016. Dopo la vittoria del “No”, e ora in questa delicata fase dell’implementazione, continuiamo a essere pienamente coinvolti nella difesa della pace definitiva in Colombia. Altri Paesi dell’America Latina come Brasile, Cuba, Venezuela, Honduras, Argentina rientrano nei nostri programmi di cooperazione per le circostanze speciali politiche che vivono o per le difficoltà vissute dall’attività sindacale.
RDG: Comisiones Obreras ha lavorato molto anche nel Mediterraneo, specialmente in Marocco dove ha realizzato progetti con le donne e sul lavoro degno. Riuscite a continuare questo lavoro?
CF: Come dicevo, la cooperazione sindacale internazionale ha sofferto una pesante battuta d’arresto a causa dei tagli. Ciononostante continuiamo a sviluppare alcuni progetti che avevamo avviato anni fa e che hanno dato importanti risultati. I progetti con le donne sono sempre stati centrali nel nostro lavoro sia nel Maghreb che nell’Africa subsahariana. Nonostante i pochi fondi per i progetti, la nostra relazione con i sindacati del Mediterraneo continua ad essere molto intensa.
RDG: Cambiamo argomento. Parliamo di Brexit e delle sue conseguenze…
CF: CCOO è dispiaciuta del fatto che la decisione libera e democratica del popolo britannico sia andata in direzione di un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Ci preoccupano soprattutto le condizioni dei lavoratori britannici una volta fuori dalla UE e anche dei lavoratori non britannici nel Regno Unito. Migliaia di cittadini spagnoli vivono e lavorano nel Regno Unito, soprattutto giovani che sono “fuggiti” dalla Spagna per cercare un lavoro che qui non trovano nonostante siano, in molti casi, super qualificati. Anche la situazione di Gibilterra ci sembra preoccupante, visto che migliaia di spagnoli attraversano la separazione di filo spinato quotidianamente per andare a lavorare a Gibilterra. Il loro posto e condizioni di lavoro sono in pericolo. Se potranno conservare il lavoro, potrebbero vedersi costretti a ore di coda per entrare a Gibilterra se non si limiterà la libera circolazione delle persone. Vale la pena sottolineare che a luglio 2017 si è costituito a Gibilterra un CSIR (Consiglio Sindacale Interregionale) tra i sindacati maggioritari di Gibilterra e dell’Andalusia per garantire i diritti dei lavoratori transfrontalieri. Il conflitto politico tra Spagna e Regno Unito sulla sovranità di Gibilterra non permette di considerare transfrontalieri questi lavoratori e per questo per loro non esistevano protezioni. In ogni caso speriamo che l’accordo sul Brexit preveda il massimo delle garanzie per i lavoratori e lavoratrici nel Regno Unito. Per noi l’accordo migliore sarebbe che il Regno Unito mantenesse con la UE una relazione simile a quella che ha la Norvegia.
RDG: I sindacati hanno riaffermato il No al TTIP e al CETA. Quali sono i prossimi passi in questa importante campagna?
CF: CCOO è stata determinata nella sua posizione contro il TTIP e il CETA, non in quanto accordi commerciali ma perché riteniamo che siano accordi che favoriscono solo gli interessi dei grandi investitori e che possono portare a una grave retrocessione in materia dei diritti dei lavoratori e lavoratrici, oltre che per l’ambiente e gli standard di qualità, di sicurezza e normativi della UE.
Il CETA è già una realtà dopo la sua ratifica da parte del Parlamento Europeo e del Parlamento spagnolo. Adesso la nostra azione, un’azione congiunta con la società civile organizzata, si concentrerà su come garantire che l’applicazione del CETA non colpisca le persone. Denunceremo qualunque attacco ai diritti consolidati.
RDG: Un aspetto importante in questi ultimi anni è il tentativo continuo di far accettare la precarietà come qualcosa di inevitabile. CCOO dice chiaramente che «la precarietà non si organizza, si combatte». Come si articola e che successo ha questo vostro approccio anche in altri ambiti di sinistra, dato che alcuni settori della sinistra (è stato così in Italia per esempio) hanno non solo accettato ma addirittura promosso la precarietà?
CF: È vero: CCOO non accetta né accetterà la precarietà come qualcosa di inevitabile. Siamo radicalmente contrari anche al fatto che si parli di “lavoratori precari”. I lavoratori non sono mai precari, quello che è precario è il lavoro che viene offerto (o imposto) loro, o le condizioni lavorative.
La precarietà non è mai giustificata. Possono esistere lavori meglio o peggio retribuiti, cosa che ha a che fare con il valore aggiunto che generano, con la qualifica richiesta, con l’offerta di lavoratori…; ci sono posti di lavoro con orari poco attraenti: festività, turni, notti. Ma quando parliamo di precarietà, in Spagna per lo meno, stiamo parlando di lavoro senza regolamentazione, dove l’imprenditore decide quando e quanto si lavora, dove il salario è misero, dove non si rispettano le pause, dove si obbliga a fare straordinari. La riforma del lavoro ha normalizzato la precarietà nella contrattazione. Da un lato, rendendo più facile la contrattazione temporanea (non si esige casualità che giustifichi che un contratto sia a tempo indeterminato) e, dall’altro, trasformando il contratto a tempo parziale in un contratto che di fatto l’imprenditore adatta alle sue necessità (si permettono straordinari, si possono aggiustare gli orari a seconda dei bisogni dell’azienda). In Spagna la maggioranza dei contratti a tempo parziale non sono volontari, non sono una scelta (ossia, il lavoratore preferirebbe avere un tempo pieno). Inoltre, la frode nei confronti della Sicurezza Sociale è evidente, visto che molti contratti a tempo pieno (di otto o più ore quotidiane) si mascherano da contratti part-time e non si pagano i contributi per tutta la giornata (e il lavoratore spesso non è pagato per le ore che fa).
Il rifiuto totale dei padroni spagnoli, sostenuti dal Partido Popular, di accettare che i salari siano in qualche modo vincolati alla produttività dell’industria può essere inteso come la chiara volontà di non lottare contro la precarietà.
Rispetto alla posizione della sinistra, in Spagna l’unico partito che ha governato da posizioni che potremmo definire di sinistra è stato il PSOE, il partito socialista. Le sue riforme del lavoro non hanno contribuito a stabilizzare la contrattazione né a ridurre drasticamente la precarietà lavorale, ma nemmeno l’hanno difesa. Al contrario il PP e Ciudadanos (nel loro programma elettorale) difendono la massima deregulation del mercato del lavoro, il che conduce alla precarietà, e anche al “contratto unico” con una indennità determinata non vincolata all’anzianità, cosa che porterebbe alla de-valorizzazione totale del contratto a tempo indeterminato.
RDG: CCOO si definisce un “sindacato all’offensiva”. Che significa? Come si traduce nella pratica?
CF: Siamo stati otto anni sulla difensiva, dato che la crisi, la sua gestione neo-liberale, il taglio dei diritti lavorali e sociali, l’attacco indiscriminato alla legittimità dei sindacati, la perdita di lavoro, la riduzione dei “sindacalisti liberati” (lavoratori in aspettativa perché svolgono incarichi sindacali), insieme alle nostre difficoltà economiche per la perdita di iscritti e delle sovvenzioni all’azione sindacale, hanno causato enormi difficoltà per quel che riguarda il mantenimento di strutture sufficienti ad articolare e svolgere la nostra attività.
Adesso però è il momento di passare all’offensiva: non si tratta più di continuare a difendere i nostri diritti ma dobbiamo iniziare ad esigerli; dobbiamo recuperare lo spazio che abbiamo perso nei posti di lavoro; dobbiamo recuperare iscritti, ripristinare la figura del sindacalista di riferimento, che deve mantenere il contatto permanente del sindacato con i posti di lavoro; dobbiamo recuperare spazi di negoziazione collettiva; dobbiamo recuperare spazio nelle piazze, quello spazio che in certi momenti ci è stato tolto, senza rinunciare al dialogo sociale.
RDG: Un’ultima domanda. Quali sono le grandi sfide sindacali dei prossimi anni?
CF: Nell’ultimo anno in CCOO abbiamo fatto un esercizio: “ripensare il sindacato”, non per rifondarlo ma per essere consapevoli che 50 anni dopo la nostra nascita, dobbiamo essere capaci di adattarci alla nuova realtà.
Siamo convinti che il sindacato continui a essere necessario e utile per i lavoratori e le lavoratrici nel loro posto di lavoro, ma anche per la società in generale. Siamo il contrappeso a interessi che non considerano per nulla né le persone né le loro necessità. Rappresentiamo gli interessi di milioni di persone che depositano la loro fiducia in noi. Però è imprescindibile che la risposta che offriamo sia quella di cui davvero hanno bisogno.
L’industria tradizionale, che rappresenta il nostro spazio tradizionale, sempre più spesso condivide spazi, nel tessuto produttivo, con altri settori dove la nostra presenza è minore: commercio, settore alberghiero, servizi alla persona… Dobbiamo riuscire a essere utili anche in questi spazi, dobbiamo riuscire a far iscrivere i lavoratori e mobilizzarli. Ci sono nuove forme di lavoro, come il telelavoro, molte attività non si svolgono più in posti di lavoro tradizionali, c’è più dispersione, i lavoratori non condividono né tempo né spazio. Dobbiamo essere noi ad avvicinarci a queste nuove realtà.
I giovani non ci vedono come riferimento perché in molti casi non hanno mai lavorato o se l’hanno fatto è stato in maniera precaria e non ci conoscono e nemmeno sentono di aver bisogno di noi.
Queste, insieme ad alcune che citavo nella risposta precedente, sono le sfide che ci aspettano in un futuro immediato, insieme alla necessità di rafforzare il movimento sindacale europeo e mondiale e le relazioni bilaterali con sindacati con i quali condividiamo ideologia e strategie.
La nuova tappa che si apre in CCOO è certamente propizia per affrontare queste sfide e quelle che sorgeranno.
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Cristina Faciaben: è Segretaria del dipartimento Internazionale e di Cooperazione di Comisiones Obreras dal 2015. Nata a Barcellona nel 1971 è laureata in Scienze del Lavoro e Relazioni del Lavoro, ha cominciato a collaborare con Comisiones Obreras nel 1996, quando, oltre a lavorare in un ufficio di ingegneria, svolgeva mansioni di consulente del lavoro nella Federazione Mineraria-metallurgica di CCOO Catalunya. Dal 2001 al 2009 è stata responsabile delle Politiche di Integrazione Sociale e Pensioni pubbliche di CCOO Catalunya. È membro del Comitato Federale di CCOO.
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