Disastri ambientali. Esplode una petroliera nel mar cinese
PECHINO L’esplosione, una colonna di fumo alta un chilometro, petrolio in fiamme sulla superficie dell’oceano. Poi, la petroliera iraniana Sanchi si è inabissata a circa 160 miglia nautiche (296 chilometri) a Est di Shanghai, lasciando una macchia oleosa larga una decina di chilometri e la paura di un disastro ambientale. L’agonia della Sanchi era cominciata la sera di sabato 6 gennaio, quando era entrata in collisione con il cargo CF Crystal, registrato a Hong Kong, che portava grano dagli Usa. I 32 membri dell’equipaggio della Sanchi, 30 iraniani e due bengalesi, sono scomparsi, solo tre corpi carbonizzati sono stati recuperati in otto giorni. I 21 marinai della Crystal sono salvi.
Ora restano i dubbi sui motivi dell’incidente e i rischi di inquinamento, ancora difficili da valutare. La Sanchi, un bestione lungo 275 metri, aveva nelle cisterne 136.000 tonnellate di petrolio, 1 milione di barili, che avrebbe dovuto consegnare in Sud Corea. Per fare un paragone allarmante, la Exxon Valdez, passata alla storia come il primo grande disastro del genere per essersi incagliata nel Golfo dell’Alaska nel 1989, trasportava 1,28 milioni di barili di greggio.
In questi giorni si è parlato poco dell’agonia della Sanchi, perché i disastri in Cina non colpiscono come quelli in Occidente. Anche le autorità di Shanghai hanno tenuto un profilo basso, mostrando le immagini delle imponenti operazioni di soccorso, condotte da 13 unità navali con elicotteri e uomini coraggiosi che si sono calati sul relitto in fiamme. I cinesi hanno minimizzato i rischi ambientali. Per giorni l’Autorità oceanica di Pechino ha sostenuto che la perdita era limitata, poi si è aggrappata alla qualità del petrolio imbarcato: si trattava di condensato, di bassa densità, molto volatile e quindi tendente ad evaporare e più infiammabile rispetto al greggio normale. Ancora ieri i tecnici governativi erano rassicuranti: «Non c’è al momento una grande minaccia ambientale all’ecosistema marino, perché la gran parte di questi idrocarburi si è dispersa nell’aria». Diversa la versione di Mohammad Rastad, portavoce della squadra di soccorso iraniana inviata a Shanghai, secondo il quale i due terzi del contenuto della petroliera, circa 700 mila barili, sono in mare. Altri esperti del settore sostengono che, nonostante sia possibile un certo livello di evaporazione, il condensato si mescola rapidamente con l’acqua del mare, complicando le operazioni di bonifica. Una troupe di giornalisti cinesi che ha sorvolato la zona in elicottero ha visto una grande macchia scura e ha valutato che si sia allargata su una superficie di circa 10 chilometri.
Ci sono aspetti inquietanti sulla dinamica di questo incidente. Sabato 6 gennaio, poche ore prima della collisione, la petroliera iraniana e il cargo hongkonghese avevano smesso di trasmettere la loro posizione ai sistemi di rilevamento internazionali. Il Wall Street Journal ha saputo che l’AIS (Automatic Identification System) delle due navi era spento o non operava normalmente. Viene usato insieme con il radar di bordo per prevenire le collisioni: trasmette il tipo di nave, le sue coordinate, la rotta e la velocità in tempo reale. Quei dati non sono mai arrivati. Le squadre di soccorso hanno recuperato la scatola nera. L’Iran ha ripreso le esportazioni di petrolio a pieno ritmo dal 2016, quando sono state tolte le sanzioni internazionali: questo è il primo incidente che coinvolge la sua flotta da allora.
FONTE: Guido Santevecchi, CORRIERE DELLA SERA
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