Ecosistemi. I guardiani della foresta senza diritti
Nella terra reclamata dal popolo indigeno dei Mapuche in Cile e nel cuore della foresta amazzonica peruviana. Ha toccato due tappe simboliche il viaggio di Papa Francesco in America Latina. Due luoghi che mettono al centro i diritti calpestati delle popolazioni indigene: da un lato l’esproprio delle terre ancestrali, dall’altro la deforestazione, il dilagare di miniere e monocolture.
“Mai così minacciati”, a Puerto Maldonado, la porta d’ingresso dell’amazzonia peruviana, il pontefice ha condannato anche chi, nel nome della conservazione, rende inaccessibile agli indios la foresta. Il papa ha indicato le stesse comunità come custodi delle risorse naturali, della casa comune.
A mettere per la prima volta nero su bianco il ruolo dei popoli nativi nella conservazione è stata la Convenzione sulla Diversità Biologica del 1992 e, in seguito, lo ha confermato la Dichiarazione Onu per i diritti dei Popoli Indigeni del 2007.
Se sulla carta i diritti vengono garantiti, la realtà è ben diversa. Alla fine del mese di ottobre, a Londra, in Gran Bretagna, hanno marciato i “Guardiani della foresta”. Così si sono definiti i difensori dell’ambiente, rappresentanti di comunità indigene provenienti da diverse zone del mondo: dal Brasile all’Indonesia. Hanno rivendicato il loro ruolo nella conservazione delle foreste, nella mitigazione del cambiamento climatico e nella difesa dei fiumi. I rappresentanti indigeni hanno denunciato la criminalizzazione che subiscono e hanno chiesto giustizia per i tanti difensori ambientali uccisi in questi anni e per le comunità sfrattate dai loro territori. Nonostante il riconoscimento internazionale, gli abitanti delle foreste vengono privati dell’accesso alla terra, all’acqua e ai prodotti della natura. In Brasile gli indios Guaranì Kaiowà hanno visto trasformare il Mato Grosso, letteralmente “foresta fitta”, in distese di canna da zucchero e soia. In Camerun ai Baka viene impedito l’accesso alle foreste da parte delle compagnie di taglio del legname.
Anche le riserve naturali, pensate per la conservazione di specie protette, impediscono l’accesso alle comunità indigene. L’organizzazione internazionale a tutela dei popoli indigeni Survival International definisce i parchi nazionali odierni come frutto di un retaggio coloniale. Un modello di conservazione che vuole preservare il territorio privandolo della presenza umana. Eppure in quelle stesse aree le comunità indigene hanno sempre vissuto in equilibrio con animali e piante. Il 27 novembre scorso Survival International ha lanciato una campagna di boicottaggio mondiale del turismo nelle riserve delle tigri, in India. Chiede il riconoscimento dei diritti delle tribù che vivono all’interno delle riserve e la fine degli sfratti illegali dei villaggi. Survival punta il dito anche contro le grandi organizzazioni per la conservazione, come la Wildlife Conservation Society (WCS), che avrebbero promosso l’idea di aree “vergini”, prive di insediamenti, per una maggior tutela della fauna selvatica.
Nel nome della conservazione della tigre, spiega Survival International, le autorità indiane impediscono alle comunità indigene di entrare nella foresta dove hanno sempre abitato. È quello che sta avvenendo al popolo Mising nel Nord-Est dell’India, dove sorge il Parco Nazionale di Kaziranga. “La comunità da cui provengo consuma pochissimi prodotti industriali, è autosufficiente e connessa alla natura” racconta Pranab Doley, attivista dell’organizzazione Jeepal e rappresentante del popolo Mising. Il giovane si batte con la sua organizzazione per la difesa dei diritti delle comunità indigene e nel mese di ottobre è arrivato in Italia per raccontare cosa sta succedendo al suo popolo. “Coltivano in maniera sostenibile e possiedono animali: tutti gli aspetti della loro economia sono in simbiosi con l’ambiente. La relazione con la flora e la fauna è basata sul dare e sul prendere” sottolinea Pranab Doley, spiegando l’interdipendenza tra Mising e foresta.
Le comunità Mising che vivono ai margini del parco naturale, avrebbero diritto di accesso alla foresta ma vengono minacciate dalle guardie del Kaziranga National Park: “Vengono accusate di mettere a rischio la vita degli animali selvatici. Ma questo non è vero”. Pranab Doley denuncia l’atteggiamento del governo nei confronti dei Mising: le politiche di ricollocamento forzato e le accuse infondate di bracconaggio.
La legislazione indiana formalmente riconosce i diritti degli abitanti della foresta, attraverso il “Forest Right Act”. Il testo del 2006 garantisce ai singoli e alle comunità la possibilità di abitare nella foresta e di utilizzare i suoi frutti. Tutela, inoltre, le tradizioni e prevede una compensazione in caso di sfratto. Secondo la legge nessuna decisione che riguardi le terre ancestrali può essere presa senza consultare le popolazioni che le abitano. “Il Forest Right Act non viene rispettato. Le persone vengono estromesse dalla foresta senza consultazione” sottolinea il giovane attivista di Jeepal.
Le comunità sono costrette a sopportare diversi livelli di violenza: da quella spirituale a quella culturale e fisica. Come sottolinea Pranab Doley i popoli indigeni hanno subito l’alienazione del proprio territorio ancestrale: “Il modello di conservazione attuale ha creato una frattura tra la comunità e la natura che la circonda”. La frattura di cui parla Doley non è solo sul piano del rapporto con l’ecosistema ma coinvolge anche l’ambito spirituale. “La comunità Mising venera la natura: gli animali della foresta, i ruscelli, gli alberi” e quindi impedire la relazione con la natura vuol dire non poter accedere ai luoghi sacri. Le comunità vengono costrette a cambiare le loro fonti di sostentamento: non possono più praticare la raccolta dei prodotti della foresta, non possono pascolare il bestiame o coltivare. L’allontanamento delle popolazioni indigene dai territori ancestrali ha conseguenze anche sulla salute della natura stessa, sottolinea Pranab Doley: “Nelle foreste sono comparse specie vegetali estranee che non sono più governabili e mettono a rischio le specie autoctone”.
FONTE: Marta Gatti, IL MANIFESTO
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