La denuncia delle Nazioni Unite: donne discriminate sugli stipendi

by Rachele Gonnelli | 21 Gennaio 2018 10:22

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«Il più grande furto della storia», così lo ha definito la consigliera di Un Woman[1], l’ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere, Anuradha Seth. Un’opera di banditismo quotidiano, dunque, volendo mantenere la cornice da epopea del West. In realtà ciò che la studiosa voleva mettere in luce in una intervista all’agenzia di stampa spagnola Efe era la grande sottrazione di ricchezza dalle tasche delle donne in rapporto a quanto viene pagato uno stesso lavoro ai colleghi di sesso maschile. Le donne guadagnano in media il 23 per cento in meno, un dato che non conosce frontiere, settori, età o qualifiche. Per ogni dollaro guadagnato, a una donna vanno in tasca solo 77 centesimi.

«NON ESISTE un solo paese, un solo settore, in cui le donne guadagnino gli stessi stipendi degli uomini», ricorda Seth. Si tratta di un dato macro e non è neppure il peggiore. Sempre guardando il mondo con una visione grandangolare la paga media delle donne è 12 mila dollari, quella degli uomini 21 mila, quasi il doppio. E questo divario, nel 2017, per la prima volta negli ultimi dieci anni si è approfondito, anzichè accorciarsi anche solo di un pochino.

C’È UN SOLO PAESE dove la parità salariale è sancita per legge: l’Islanda. E la legge è molto recente, è entrata in vigore dal 1° gennaio. Stabilisce che tutte le aziende con più di 25 dipendenti dovranno ottenere un certificato dal governo di Reykjavik che attesti la loro aderenza ai nuovi criteri di gender equality. Il Paese dei geyser era già il più virtuoso della lista dei 144 paesi monitorati dalle organizzazioni internazionali per quanto riguarda il gender pay gap e più in generale le disparità di trattamento tra uomini e donne. Adesso è il primo che ha recepito in una normativa gli obiettivi Onu e intende anticipare la completa parità lavorativa entro il 2022. L’Onu spera che altri paesi facciano altrettanto, considerando che due terzi dei più sviluppati, membri dell’Ocse, hanno avviato politiche per ridurre la disparità salariale di genere a partire dal 2015. Ma i più grandi progressi in questo campo vengono da luoghi come il Costa Rica (dove il gap si è ridotto al 5%, come in Lussemburgo), il Mozambico, l’Argentina di qualche anno fa. In Germania il divario è calcolato al 15,7 %, nel Regno Unito al 17,1 %, in Giappone è il 25%, negli Usa il 18%. In fondo alla classifica c’è lo Yemen, in compagnia di Ciad, Mali, Arabia saudita e Marocco. Di questo passo servirebbero, si calcola, 70 anni per raggiungere la parità.

IL CASO ITALIA come al solito è sui generis perché il dato sui salari vedrebbe il Belpaese attestarsi nel rapporto del World economic forum come primo della classe nell’Unione europea, ma si tratta solo di una allucinazione statistica. La verità è che l’Italia nel 2017 è scivolata all’82° posto per gender gap, una botta di 22 posizioni in un solo anno ma ancora più grossa se si considera che nel 2015 era iscritta nella 41° casella. E questo soprattutto a causa della rarefazione delle figure femminili nel panorama politico e parlamentare, tanto per ricordarselo in campagna elettorale.

QUANTO AI MOTIVI per cui si produce una così grossa diversità di trattamento economico tra uomini e donne, non esiste una spiegazione unica e semplice. Più fattori concorrono. Tra quelli che vengono chiamati in causa dalle ricerche dell’Undp, il dipartimento per lo sviluppo delle Nazioni unite, si menzionano anche la sottovalutazione del lavoro femminile o gli stereotipi veicolati con la pubblicità ma il motivo principe è la minore partecipazione delle donne al mondo del lavoro (l’Italia è fanalino di coda nella Ue insieme alla Grecia e considera «un record» nazionale aver raggiunto il 48,9% di popolazione femminile in età lavorativa occupata quando la media europea raggiunge il 62,5%).

Secondo Annamaria Furlan, segretaria generale Cisl – con Camusso e Redavid della Fiom una delle tre donne alla guida di grandi sindacati italiani – la ricetta per aumentare l’occupazione femminile sarebbe aumentare il welfare aziendale e i contratti di part time volontario per conciliare tempo di lavoro e di cura. Lo Stato, evidentemente, non è pervenuto.

FONTE: Rachele Gonnelli, IL MANIFESTO[2]

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Endnotes:
  1. Un Woman: http://www.unwomen.org/en
  2. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2018/01/96503/