by Leonardo Clausi | 16 Gennaio 2018 10:08
LONDRA. Non esistono aziende-Frankenstein, per quanto sovradimensionate e voraci, «troppo grandi per fallire». Lo dimostra il triste – e disastroso per i lavoratori – epilogo della Carillion, gigante dell’edilizia britannica mandata ieri in liquidazione dopo l’abbandono del tentativo in extremis di tenerla a galla. L’accordo, che prevedeva la cessione alle banche dell’equivalente del debito in azioni espropriando così gli azionisti, non è stato accettato da HSBC, Barclays e Santander perché volevano anche la spalla del governo su cui piangere. Ma il governo, a sua volta senza lacrime (soldi), ha detto niet. Così, sotto il peso di 900 milioni di sterline di debito e di un deficit del fondo pensionistico per 580 milioni, almeno una ventina di migliaia di lavoratori a livello nazionale rischiano seriamente di perdere l’impiego, mentre l’azienda è nel mirino della Financial Conduct Authority, l’agenzia di vigilanza finanziaria.
DAVID LIDINGTON (l’attuale vice di Theresa May ora che Damian Green è stato messo in castigo per aver usato un computer di Sua Maestà a fini onanistici), ha difeso i vertici dell’azienda (il cui amministratore delegato è stato dimissionato l’anno scorso grazie a un Tfr da 600mila sterline (oltre un milione di Euro) sottolineando come i guai finanziari del gruppo provenissero da certe sue operazioni in terra straniera, ma quello di ieri era un epilogo annunciato. Già da venerdì il valore delle azioni aveva continuato a precipitare con avvitamento: la perdita di un ulteriore 29% ha portato il valore complessivo cancellato della società al 94% in un solo anno. Valeva due miliardi e ora vale 61 milioni. Lidington, che nonostante il ruolo istituzionale agisce come una sorta di PR informale di un’azienda i cui vertici sono coibentati nel partito conservatore, ha addebitato il disastro a delle commesse non pagate in Canada e in Medio Oriente, soprattutto Qatar, Arabia Saudita ed Egitto. Ha inoltre garantito che le commesse statali un tempo affidate all’azienda saranno comunque realizzate dalla concorrenza.
IL PARTITO LABURISTA, per voce della ministra ombra del business Rebecca Long-Bailey, ha sollecitato l’apertura di un’inchiesta non solo sull’azienda, ma sul governo stesso. La ministra si è detta“preoccupata per il modo in cui il governo ha gestito la questione”e ha ribadito che l’azienda dovrebbe essere messa sotto controllo statale in modo da dare ai suoi lavoratori, fornitori e pensionati un minimo di sicurezza. 43mila dipendenti, numero due nazionale del settore, seconda solo alla Balfour Betty, l’azienda di Wolverhampton (nelle Midlands) era un avido Gargantua cui è andato di traverso il boccone troppo grosso. Non si occupava solo di edilizia e infrastrutture, era appaltata fino ai capelli con commesse ricevute da governi tory e labour identicamente votati alla privatizzazione per la gestione di prigioni, scuole, ospedali.
CARILLION ne ricavava circa un miliardo e settecento milioni di sterline del proprio fatturato. Negli ultimi cinque mesi erano stati almeno tre gli allarmi sugli utili diramati dai suoi vertici. Che una stessa – pur gigantesca – impresa edile che deve costruire l’alta velocità ferroviaria ferroviaria a Nord del Paese denominata HS2 e gestire la manutenzione di cinquantamila alloggi militari possa/debba anche occuparsi di cuocere e servire pasti scolastici nelle scuole pubbliche, o della pulizia negli ospedali, appare ingenuamente surreale. Eppure in questo Paese è la norma da anni.
OLTRE ad aver costruito il centro media del complesso olimpico londinese, il terminal 5 dell’aeroporto di Heathrow (ad uso esclusivo della British Airways) o la biblioteca di Birmingham, tanto per citare tre grandi opere, Carillion gestisce 200 sale operatorie, circa 12mila letti e prepara oltre 18mila pasti quotidiani per i pazienti in ospedali in tutto il Paese. E gestisce la metà delle prigioni nazionali. Questo fulgido esempio di partnership pubblica e privata – che qui definiscono «parastatale» – si chiama outsourcing: un altro tecnocratico lemma pronto ad aggiungersi ai vari jobs act, spread, spending review e con cui si definisce lo smantellamento di quel che resta del lavoro e del settore pubblico.
FONTE: Leonardo Clausi, IL MANIFESTO[1]
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