by redazione | 9 Gennaio 2018 10:18
BOGOTÀ. Grande quasi quattro volte l’Italia, con una popolazione che nel 2018 raggiungerà i 50 milioni, la Colombia è entrata con gli Accordi di pace del 2016 tra il governo e le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejército del Pueblo (Farc-Ep) e il cessate il fuoco bilaterale tra governo ed Ejército de Liberación Nacional (Eln), che dal 1° ottobre scorso resterà in vigore fino al 9 gennaio 2018, in una nuova fase della sua storia. Che, senza risalire più indietro nel tempo, negli ultimi settant’anni è stata segnata dalla violenza.
ESILI LE BASI DEMOCRATICHE dello Stato, la Repubblica colombiana è sempre stata governata da ristrette élite e non ha mai avuto governi di sinistra. Quando nel seno del Partito liberale emerse con Jorge Eliécer Gaitán un leader con queste caratteristiche e si candidò alla presidenza della Repubblica, fu assassinato il 9 aprile 1948 da mandanti rimasti sconosciuti.
La sua morte scatenò una rivolta (Bogotazo) che dalla capitale si estese a varie zone del paese inaugurando il periodo chiamato la Violencia, (1948-1958) ovvero una guerra civile tra liberali e conservatori, che lasciò sul terreno circa 300 mila morti e sancì l’origine di gruppi guerriglieri liberali. Al conflitto interno (ma non alla Violencia) mise fine, con l’accordo dei poteri forti, politici ed economici, la dittatura del generale Rojas Pinilla (1953-57) che con promesse riuscì a convincere una parte della guerriglia a smobilitare.
ALLA DITTATURA subentrarono governi di Fronte Nazionale (1958-1974) fondati sull’accordo tra Partito conservatore e Partito liberale e sulla loro alternanza alla guida dell’esecutivo, qualunque fosse il risultato delle elezioni.
In definitiva un tappo posto a qualunque evoluzione del quadro politico, contro il quale riprese vigore la guerriglia liberale e questa volta anche comunista, una parte della quale nel 1964 si organizzò nelle Farc e nell’Eln, cui dette fama l’adesione e poi la morte del sacerdote Camillo Torres (1966). Vi si aggiungero nel 1965 il maoista Ejército de Liberación Popular (Epl) e dai primi anni settanta la guerriglia inzialmente urbana dell’M-19. A contrastare la guerriglia l’esercito e varie formazioni paramilitari (favorite da una scellerata legge del 1968 che autorizzava l’autodifesa dei civili), poi emuli dei contras nicaraguensi, finanziate da proprietari terrieri e narcotrafficanti, con la complicità dei corpi di polizia e dell’esercito, responsabili anch’essi di decine di massacri e di migliaia di omicidi.
Spiccia e ricorrente la modalità di intervento nella vita politica con gli assassinii di decine di sindacalisti e uomini politici, tra i quali il Ministro della giustizia, Rodrigo Lara Bonilla, ordinato da Pablo Escobar nel 1984 e di tre candidati alla presidenza della repubblica: Luis Carlos Galán (1989), Bernardo Jaramillo Ossa e Carlos Pizarro (1990) per mano dei paramilitari. Non senza ibridazioni con i narcotrafficanti ed efferati crimini anche da parte della guerriglia.
NEL 1997 I PARAMILITARI si fusero nelle Autodefensas Unidas de Colombia (Auc) che si contraddistinsero atti di inusitata violenza fino al 2006, quando usufruendo della Ley de Justicia y Paz del 2005, in gran parte smobilitano, mentre altri si organizzano in bande criminali che tuttora imperversano in alcune zone del paese (Clan del Golfo, Los Rastrojos, ecc.)
Venne poi, nel 1999, il «Plan Colombia» di Bill Clinton, proseguito da George W. Bush d’intesa con il presidente Álvaro Uribe. Un piano di fumigazione delle coltivazioni di coca, quindi contro il narcotraffico, ma carico di altre conseguenze, come il controllo politico e la militarizzazione del sub continente americano, costato 7 miliardi di dollari agli Usa. Che fin dai tempi della guerra di Corea, quando la Colombia inviò un proprio contingente militare, hanno mantenuto un solido rapporto con le élite colombiane.
È stato calcolato che il conflitto armato a cui gli Accordi di pace del 2016 hanno posto fine, abbia mietuto dal 1958 al 2012 circa 220.000 vittime, l’81% delle quali costituite dalla popolazione civile. Circa 10.000, tra mutilati e deceduti, le vittime delle mine antiuomo distribuite su circa il 45% del territorio nazionale. Per non dire delle migliaia di bambini e adolescenti arruolati coercitivamente dalle varie formazioni combattenti.
A CAUSA DELLA GUERRA la Colombia è nelle statistiche come il paese più violento del sub continente americano e quello che più ha visto decurtato il proprio Pil dalle spese militari. Una guerra che ha investito il territorio di circa un terzo dei comuni e stravolto il paesaggio umano, costringendo oltre 4,7 milioni di colombiani ad abbandonare i propri luoghi di residenza e circa 8,3 milioni di ettari di territorio.
Ricco di risorse minerarie, con un’agricoltura floridissima e risorse idriche eccezionali, la Colombia resta solcata da terribili squilibri territoriali e sociali: il 17,8% della popolazione vive in situazione di povertà multidimensionale, percentuale che ascende al 37,6% nelle zone rurali; il 28% in condizione di povertà monetaria e l’8,5% di povertà estrema (Fonte Dane, 2016). La stessa fonte fissa il tasso di disoccupazione del 9,1% e il PIL all’1,3.
LA PIRAMIDE DEMOGRAFICA poggia su una solida base: i dati del 2015 dicono che la popolazione maschile fino ai 29 anni rappresenta il 55,23% di quella totale, quella femminile il 51,64%. Dunque un paese giovane, la cui società civile, tradizionalmente poco dinamica, ha dato segni di risveglio proprio accompagnando il processo di pace, specie nelle università, all’avanguardia nella mobilitazione a sostegno degli Accordi. Decisive saranno le prossime elezioni, previste per il marzo del 2018, dal cui esito dipenderà il cammino del processo di pace, al quale le destre continuano a mettere i bastoni tra le ruote.
FONTE:
IL MANIFESTO[1]Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2018/01/96287/
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